Antologia

Le Compagnie di Ventura e i più noti Capitani italiani

di Ornella Mariani
Bartolomeo Colleoni, statua equestre in bronzo del Verrocchio, Venezia, in Campo dei santi Giovanni e Paolo
Bartolomeo Colleoni, statua equestre in bronzo del Verrocchio, Venezia, in Campo dei santi Giovanni e Paolo

Le Masnade comparvero in Italia all'inizio del XIV secolo.

Il termine, derivato dal latino Mansionata e dal provenzale Maisnada, indicava mercenari che, già alla fine dell'XI secolo, privi di coscienza professionale, insegne e referenti; estratti dalla decadenza feudale spagnola, fiamminga e tedesca; condannati dal Concilio Laterano I del 1179 e da una Bolla di Urbano V; provenienti da ambienti rurali o da fasce di emarginazione; attratti da spirito d'avventura e sprezzanti di gloria, onore e regole della guerra, con le loro appuntite lance e spade corte lasciarono scie di sangue e di efferatezze nelle periferie continentali.

Un anonimo coevo li descrisse Gente son sanza freno e mai non pensan se non di usurpare.

Nell penisola fecero la loro prima apparizione con Giovanni di Boemia nel 1333; in seguito, arricchite le loro fila con fuoriusciti ed esuli, si posero sotto la guida di leggendari Capitani di Ventura che, consapevoli della loro utilità ove le autonomie locali esigevano difesa, li organizzarono e disciplinarono pur senza ridurne la primitiva ferocia.

Alle gesta di John Hawkwood, Hannekken von Boumgarten, Konrad von Landau, Giovanni di Montréal e Werner von Urslingen, il cui motto fu Nimico di Dio, di pietà e di misericordia, si aggiunsero, così, quelle di ambiziosi membri di potenti famiglie, spesso titolari di Signorie ed alla ricerca di ulteriori ricchezze e spazio politico: Lodrisio Visconti, Braccio da Montone, Niccolò Piccinino, Bartolomeo Colleoni, Francesco Sforza, Francesco Bussone, Giovanni de' Medici, Ludovico Racaniello, Guidoriccio da Fogliano.

Proprio Lodrisio Visconti inquadrò per la prima volta le Masnade in una efficiente ed ordinata Compagnia di Ventura detta Compagnia di san Giorgio e distrutta poi da Ettore da Panigo.

L'esperienza fu imitata da Werner von Urslingen che, al soldo di Signori lombardi e toscani, istituì la Grande Compagnia passata alla sua morte a Giovanni di Montréal; da Albert Stertz, che fondò la Compagnia Bianca prima che i Perugini lo decapitassero; da Astorre Manfredi, che realizzò la Compagnia della Stella; da Niccolò da Montefeltro, che organizzò la Compagnia del Cappelletto; da Giovanni da Buscareto e Bartolomeo Gonzaga, che iniziarono la Compagnia della Rosa; da Ambrogio Visconti, che promosse una seconda Compagnia di san Giorgio esclusivamente italiana e benedetta dal Papa.

Era cominciato il reclutamento mirato, con l'addestramento alle armi da parte del di Ventura che pagava direttamente dopo aver fissato con i Signori committenti i termini delle prestazioni, le norme d'ingaggio, il numero dei soldati e la durata dell'impegno in un preciso contratto detto condotta, donde assumeva la definizione di Condottiero.

Il patto era a soldo disteso, se l'incarico imponeva la militanza di un determinato numero di Fanti e di Cavalieri agli ordini del Capitano generale di una città o di una Signoria; a mezzo soldo se il Capitano di Ventura combatteva in posizione sussidiaria rispetto al Capitano Generale, in tal caso non percependo paga piena ed esponendosi a minore rischio.

Introdotto verso il ‘400, l'ingaggio riferito ai Mercenari del mare si chiamò, invece, contratto d'assento donde i reclutati furono detti assenteisti.

I proventi di un Condottiero variavano in relazione al prestigio: Micheletto Attendolo Sforza, ad esempio, nel 1432 riceveva da Firenze mille fiorini al mese per sé e novecento per la Compagnia; Guglielmo di Monferrato nel 1448 percepiva da Francesco Sforza seimila e seicento fiorini al mese da spartire con la truppa; Francesco Gonzaga nel 1505 incassava, ancora da Firenze, trentatremila scudi annui per sé e per i suoi duecentocinquanta uomini; Francesco Maria della Rovere ne guadagnava centomila annui, per sé e i duecento uomini.

I Capitani di Ventura divennero marginali solo a fine ‘400, quando le nuove invasioni; l'utilizzo di nuove armi e il consolidamento degli Stati Nazionali mutarono l'organizzazione militare: essi seguitarono la loro attività solo come Generali al servizio di potenze straniere, poiché ogni Stato si dotò di eserciti di bandiera.

I dal Verme: Luchino, Jacopo, Luigi e Pietro

Originari di Verona, ebbero come capostipite Luchino, del quale Francesco Petrarca scrisse di tutti i capitani dell'età nostra è il più esperto e il più valoroso.

Egli nacque verso il 1320 da Pietro ed è certo che, fin da giovane, prestasse servizio sotto gli Scaligeri passando poi al soldo dei Visconti nella lotta contro Firenze. Le frammentarie notizie lo collocano nell'aprile del 1359 all'assedio Pavia crollata per fame, malgrado le appassionate sollecitazioni alla resistenza del frate Jacopo Bussolari, il 13 novembre quando la città perse le libertà comunali e il monaco ribelle fu esiliato ad Ischia. Quattro anni più tardi, nella guerra viscontea col Marchese del Monferrato, lo ritroviamo vittorioso contro il temuto Giovanni Acuto, al secolo John Hawkwood. Nel 1364 lo vediamo accettare la condotta offerta dal Doge veneziano Lorenzo Celsi, nel conflitto contro Candia: nel maggio l'Armata veneta sbarca nell' isola ed in tre giorni Luchino ha ragione della rivolta capeggiata dal Frate ortodosso Calogero. La Serenissima lo iscrive nell'albo patrizio e gli accorda una pensione annua di duemila ducati. Dopo un breve ritorno alle dipendenze dei Visconti, ancora presi dal conflitto contro il Marchese del Monferrato, torna in Oriente per la Repubblica marinara e vi trova la morte: è il 1372.

La prestigiosa eredità ricade sul figlio Jacopo, nato a Verona nel 1350: dopo aver servito gli Scaligeri ed essersi posto nel 1370 al servizio del Ducato di Milano, egli occupa nel 1373 la piacentina e ribelle Val Tidone ma, nel 1378, morto il Duca, si allontana per la dura rivalità fra Giangaleazzo e lo zio Bernabò e torna ai Signori di Verona ottenendo il comando delle truppe antiviscontee. L'anno dopo, conclusa la pace, proprio Bernabò lo chiama come Capitano Generale contro il Marchese del Monferrato; ma Jacopo preferisce l'offerta di Giangaleazzo ed accetta di partecipare al suo complottò contro l'ingombrante parente: il 6 maggio del 1385 a Porta Giova, quattrocento suoi uomini tendono una trappola a Bernabò; lo arrestano e lo deportano nel castello di Trezzo, ove si spegne sette mesi dopo. La complicità fra Jacopo e Giangaleazzo si concolida nel 1387 con la conquista di Padova e l'espulsione dei Carraresi: la potente famiglia sostituitasi al governo comunale.

L'evento impressiona favorevolmente la Repubblica di Venezia che iscrive Jacopo, come il padre, nel patriziato veneto e gli dona il palazzo di san Polo.

Il 1390 è l'anno di un nuovo incarico: il Visconti vuole una spedizione contro Bologna e Firenze: l'una ha assoldato il Conte Giovanni d'Armagnac; l'altra ha ingaggiato Giovanni Acuto. Il contrasto si risolve sotto Alessandria ove, per impedire la riunione delle forze nemiche, Jacopo si apposta assicurandosi la sorveglianza del passaggio obbligato del Tanaro e della Bormida: il 25 luglio del 1391 a Castellazzo liquida i quindicimila soldati dell'Armagnac che trae prigioniero con due Ambasciatori fiorentini, conseguendone la fuga di Giovanni Acuto e l'occupazione di Firenze. L'Ariosto plaude all'evento e Bonifacio IX concilia le parti: ormai i Visconti controllano tre quarti dell'Italia settentrionale e Giangaleazzo ha maturato il diritto al quel titolo di Duca che ottiene il 5 settembre del 1395 da un Legato dell'Imperatore Venceslao, previa corresponsione di centomila fiorini. Le sue mire su Genova, tuttavia, gelano l'Italia e favoriscono la costituzione di una Lega: i Bolognesi, il Marchese di Ferrara, i Signori di Mantova e Padova si armano di nuovo, quando un potente esercito capeggiato da Jacopo dal Verme e Ugolotto Biancardo muove verso Mantova.

Fermato dal Capitano dei Confederati Carlo Malatesta e condizionato dalla sconfitta del sodale a Governolo, nell'agosto del 1397 il Capitano di Ventura è costretto a ripiegare su Guastalla in attesa rinforzi di Alberico da Barbiano: in ottobre, nella Battaglia di Borgoforte, la Lega è duramente battuta. Il Visconti continuerebbe la guerra occupando un ampio territorio a Sud del Po, se non fosse impedito dalla minacciosa invasione della Lombardia da parte di Leopoldo d'Austria, invitato dai Fiorentini. Il Ducato, pertanto, pone in campo un nuovo esercito di oltre ventimila unità e ne affida la guida ad Alberico e ad Jacopo che, a Brescia il 21 ottobre del 1401, imposengono ai Tedeschi di ripassare le Alpi ed occupano nel 1402 Bologna, dopo la brillante vittoria di Casalecchio. Il 3 settembre dello stesso anno, la morte del Duca impedisce la programmata conquista anche di Firenze: Jacopo, allora, riordina l'esercito in Toscana; risale in Lombardia per contrastare Francesco Novello da Carrara che ha preso Verona; assedia Brescia. La guerra si protrae per due anni e si conclude dopo l'alleanza tra Milano e Venezia: prigionieri della Serenissima, i Carraresi vengono strangolati su sentenza del Consiglio dei Dieci. Nel frattempo Jacopo, inviato a Venezia come Legato della vedova Caterina Visconti, riconosce alla Serenissima i beni dei defunti Signori padovani; tuttavia, a causa di intrighi di Corte la Duchessa ripara a Monza, mentre il figlio Giovanni Maria assume il governo in una condizione di impossibile anarchia.

Nel gennaio del 1407 Jacopo recluta truppe a Venezia e a Mantova: profittando della sua assenza da Milano, Facino Cane persuade il Duca ad esautorarlo. L'affronto decide il Condottiero a penetrare in area ducale attravero il bergamasco e a scontrarsi con l'istigatore il 21 febbraio successivo: liquidato Facino, Jacopo rientra a Milano accolto da trionfi ma, disgustato dalla ingrata ipocrisia di Giovanni Maria, nel 1408 se ne allontana.

La sua scomparsa si ammanta di leggenda: partito per l'Oriente, vi muore come il padre, battendosi contro i Turchi; o la morte lo coglie d'improvviso nel suo palazzo veneziano? Suo figlio Luigi, nato intorno al 1380, ne prosegue l'attività al soldo veneziano, dopo aver trascorso un periodo nella Compagnia di Ventura di Muzio Attendolo Sforza. Nel 1420, alle dipendenze dei Bolognesi, è sconfitto da Braccio da Montone.

Sposato a Luchina Bussone, figlia del Carmagnola, è ingaggiato dal Ducato milanese per la guerra contro Venezia: egli dà prova di talento e valore battendo i Fiorentini a Pietrasanta e partecipando alla difesa di Bellinzona. Lo si premia con i feudi di Bobbio, Voghera, e Castel San Giovanni e il veronese Sanguinetto, perduto dal padre quando aveva lasciato Venezia. Nel 1446 Luigi è Capitano Generale a servizio degli Este ma, morto Filippo Maria Visconti, sostiene Francesco Sforza sperando di recuperare i feudi paterni di Pieve d'Incino, Valsassina e Monguzzo. Si spegne, però, a Melzo il 4 settembre del 1449, durante l'assedio di Monza. L'ultimo dei suoi quattro figli è Pietro: in omaggio alla memoria del padre è insignito del cingolo militare nello stesso giorno in cui Francesco Sforza diviene Duca di Milano. Egli riconsegna tutti i domini feudali di famiglia ai fratelli, tranne l'agognato Sanguinetto che nel 1451 passa a Gentile da Leonessa e, sotto Galeazzo, diventa Signore della sponda orientale del lago di Como.

Con la fine degli Sforza, però, anche il prestigio dei dal Verme diminuisce. Ed infatti, nel 1482, benché abbia soccorso il Duca di Ferrara nella guerra con Venezia, Pietro resta escluso da ogni beneficio e viene sollevato da ogni incarico militare da Ludovico il Moro.

Amara la sua fine: la moglie Chiara, figlia di Galeazzo, con la complicità dello zio lo avvelena il 17 ottobre del 1485; ma il progetto di ereditarne i beni sfuma, poiché Ludovico li confisca e ne fa dono all'amante Cecilia Gallarani.

Erasmo da Narni

Nato a Narni verso il 1370 dal fornaio Pietro lo Strenuo e da Melania Gattelli e morto a Padova nel 1443, fu Capitano di Ventura prima al servizio di Firenze, poi della Chiesa e infine della Serenissima che lo designò Capitano Generale: abilissimo stratega e valoroso soldato, la difese infatti dagli attacchi viscontei riconquistandole Verona.

Il suo biografo Giovanni Eroli riferì che ... la dolcezza dè suoi modi congiunta a grande furberia, di cui giovossi molto in guerra a uccellare e corre in agguato i mal cauti nemici e pel suo parlare accorto e mite dolce e soave..., donde il soprannome Gattamelata del quale non si esclude una derivazione dal cognome materno.

Sposato nel 1410 a Giacoma Bocarini Brunoli di Leonessa, dalla quale ebbe cinque figlie femmine ed un unico maschio: Giannantonio, consolidò l'esperienza di combattente al seguito del Signore di Assisi Ceccolo Broglio finché, verso i trent'anni, fu notato da Braccio da Montone che ne raffinò l'astuzia e lo accompagnò a Niccolò Piccinino.

Nel 1424 primeggiò nell'aquilano ove, fatto prigioniero, riuscì a fuggire e ad unirsi al Piccinino e a Oddo Fortebracci postisi, con i superstiti, al soldo fiorentino nella guerra contro Filippo Maria Visconti. Apprezzandone le doti, anche Papa Martino V lo volle al suo servizio nel 1427, per consolidare la propria autorità in Umbria, Emilia e Romagna contro le turbolenze degli irrequieti Signori locali e contro Nicolina Varano, vedova di Braccio da Montone, decisa a non cedere alcuni feudi alla Chiesa.

Quasi già sessantenne, Erasmo portò seco il consuocero Brandolino Brandolini di Bagnocavallo e accettò una settennale condotta recuperando, nel 1432, anche il castello di Villafranca, sotto Imola. Risolse la questione astutamente, facendo sapere al castellano di voler pagare il riscatto di alcuni prigionieri; una volta entrato, invece, lo fece arrestare dagli uomini della sua pur modesta scorta e s'impadronì dell'edificio.

Il nuovo Primate Eugenio IV non condivise tali metodi eccessivamente tranquilli rispetto ai comportamenti dell'epoca e scappò in Toscana senza pagarlo, a fronte della riesplosione della guerra contro i Visconti; delle soverchierie di Francesco Sforza nella Marca d'Ancona; della presenza di Niccolò Piccinino in Romagna; delle prepotenze di Niccolò della Stella in Umbria.

Nel 1437, in sostituzione del Gonzaga, Erasmo accettò l'ingaggio della Serenissima, alleata della Chiesa: Capitano Generale delle truppe, egli si batté contro le forze viscontee nel vano tentativo di prendere Milano, così trovandosi non di rado al centro di vicende sanguinose che lo costrinsero ad agire in condizioni di estremo disagio nei confronti di avversari numericamente superiori e di contare sul suo spiccato senso tattico per risolvere situazioni obiettivamente complesse. Durante quell'annoso ed estenuante conflitto, nel bresciano fu condizionato dal Piccinino che gli inibì l'accesso a Verona e lo costrinse, nel 1438, a circumnavigare il Garda: raggiunta Rovereto, vi maturò la geniale idea di far risalire l'Adige ad un convoglio di cinque triremi e a venticinque barche con Bartolomeo Colleoni e rifulse di coraggio nella sanguinosa battaglia del 1439 per la conquista di Bergamo e Brescia. Favorito dalla sorte e dal tempestivo intervento di Francesco sforza, travolse le truppe nemiche nei pressi del lago.

Fu l'ultima, epica impresa: colpito da due attacchi d'apoplessia, fu privato del ruolo e posto in pensione pur continuando a percepire il soldo della condotta; a far parte della Nobiltà e a mantenere privilegi e potere.

Alla fine del 1442 si ritirò a Padova, ove si spense il 6 gennaio del 1443.

La Serenissima gli tributò funerali di Stato cui presenziò il Doge.

Francesco Bussone

Detto Conte di Carmagnola, nacque da famiglia di umilissime origini tra il 1382 e il 1385 e fu uno dei più grandi Capitani di Ventura del XIV secolo: poco più che adolescente si pose al seguito di un tal Tedasco che lo rese mercenario al soldo di Facino Cane, sposato alla bellissima Beatrice Lascari dei Conti di Tenda. Costei ebbe un ruolo di rilievo nella lotta per il controllo del Ducato di Milano poichè, una volta vedova, sposò Filippo Maria Visconti: dopo averne incamerato i beni, egli la accusò di colpevole corrispondenza epistolare e la fece torturare a morte col presunto amante.

Francesco Bussone l'aveva fedelmente seguita, ponendosi al servizio del nuovo marito a vantaggio del quale aveva riconquistato molti territori perduti dal Ducato alla morte di Galeazzo; aveva sconfitto i Lucchesi; aveva conciliato gli Aretini; aveva condizionato i Senesi; aveva piegato le velleità del Duca di Urbino; aveva stroncato le velleità del Signore di Brescia Pandolfo Malatesta.

Quando Giovanni Maria Visconti fu assassinato, il Condottiero divenne fidato Consigliere del vile Filippo Maria; lo affrancò da parenti ingombranti e aspiranti alla Signoria, a partire da Estore Visconti sconfitto a Monza; ricevette come compenso l'assegnazione della proprietà del palazzo di via Broletto e pose a difesa del Ducato ottomila Cavalieri e duemila Fanti.

Fra il 1415 ed il 1424 lottò contro Cabrino Fondulo, Pandolfo Malatesta, Giovanni Vignati e il Marchese di Pescara Fernando Francesco d'Avalos, prendendo a Lotario Rusca il castello di Lecco; catturando a Trezzo Bartolomeo Colleoni; riconquistando Crema; dopo un lungo assedio riguadagnando Piacenza ove, nel 1418, fece impiccare il figlio e il fratello di Filippo Arcelli. Tali imprese gli valsero il possesso del feudo di Castelnuovo Scrivia; la sua trasmissibilità ai discendenti e il diritto a fregiarsi del titolo di Vicecomes e a porre nello stemma il biscione visconteo e l'aquila imperiale.

Nel 1419 gli fu affidata la vittoriosa campagna contro Genova ed in seguito combatté ancora contro il Fondulo e il suo alleato Malatesta, occupando Cremona, Bergamo e una serie di città minori e sconfiggendoli definitivamente a Brescia, l'8 settembre del 1420.

Conclusa la riconquista del Ducato a Sud ed a Est, puntò al Nord; occupò i castelli di Bellinzona e di Domodossola; il 30 giugno 1422 sconfisse ottomila Svizzeri con sprezzo delle lunghe e temute picche della loro Fanteria ed occupò Altdorf ricevendo gratificazione, titoli, onori e la mano di Antonia Visconti. Presto, tuttavia, fu investito da invidie, intrighi e sospetti a fronte dei quali, privato del comando militare che fu affidato a Guido Torelli, fu designato Governatore a Genova. Il sostanziale esilio e l'ingratitudine del Visconti accesero dubbi sulla sua incolumità: animato dal desiderio di vendicare l'onore ferito ed espulso dai territori di Amedeo VIII di Savoia e di Ludovico I di Saluzzo, si rifugiò a Venezia che da tempo ambiva ad estendersi oltre il Mincio e il lago di Garda per garantirsi, attraverso Brescia e Bergamo, la difesa dall' aggressiva politica viscontea.

Il 23 febbraio del 1425 fu accolto dalla Serenissima.

Francesco si acquartierò a Treviso: all'inizio del 1426 vi apprese che gli esuli Valentina Visconti ed il marito Giovanni Aliprandi erano stati incaricati da Filippo Maria di avvelenarlo. Senza indugio, ne dispose l'arresto e la decapitazione proprio mentre gli veniva irrogata la condanna a morte dal Duca contro l'espansionismo del quale si costituì una Lega: Firenze, Venezia, Ferrara, Mantova e il Monferrato affidarono al Bussone il comando generale delle truppe.

Era giunta l'ora della rivalsa.

La rivalsa mosse da Brescia le cui porte furono aperte alle avanguardie veneziane di Pietro Avogardo: la città crollò e la sua rocca cadde per fame dopo quattro mesi di vana resistenza. Quando i contingenti di Francesco Bembo sconfissero i viscontei a Cremona, a fronte della minaccia incombente anche su Pavia, fu chiesto un negoziato di pace. Tuttavia, la stasi delle trattative indusse Venezia ad ordinare al Bussone la ripresa delle ostilità.

Il 12 ottobre del 1427 la straordinaria Battaglia di Maclodio registrò il trionfo strategico del Condottiero che contrappose ai diciottomila fra Fanti e Cavalieri ducali guidati da Francesco Sforza, Niccolò Piccinino e Carlo Malatesta, ventiseimila uomini agli ordini di Gianfrancesco Gonzaga e Niccolò da Tolentino: una fitta pioggia di frecce si abbatté sui milanesi atterrandoli a migliaia. La Serenissima si assicurò il dominio di Bergamo e Brescia e il Doge Francesco Foscari compensò il Bussone con una magnifica casa sul Canal Grande; con l'assegnazione del territorio di Castenedolo, già proprietà di Pandolfo Malatesta; con un appannaggio annuo pari a duemila lire. La pace fu siglata il 18 aprile 1428 con la mediazione papale, ma i Veneziani la ritennero inadeguata e carente di garanzie di stabilità per la precarietà dei confini sul lato milanese e per l'ordine disposto dal Visconti di reintegro del Carmagnola nella Nobiltà e nel grado militare: l'atto suscitò una diffidenza enfatizzata ai primi di gennaio del 1429 dalla richiesta dello stesso Bussone di svincolo dal contratto per un anno: benchè si trattasse di un suo diritto, avallato dalla circostanza che sul territorio visconteo egli avesse casa, beni e congiunti, si pensò ad un tradimento. Pertanto, il 10 di quel mese, il Senato respinse la domanda ed il 15 di febbraio, in sprezzo delle sue ragioni, lo riassunse d'ufficio con mille ducati mensili per una ferma di due anni donandogli, nella speranza di persuaderlo a cambiare residenza, la Contea di Chiari con i territori di Roccafranca e di Clusone.

L'investitura fu formalizzata nella domenica di Quaresima e, alla ripresa delle ostilità con il Visconti, il Doge Francesco Foscari offrì al Bussone un feudo addirittura nel Ducato nemico, nel caso avesse conseguito la vittoria.

Il Conte di Carmagnola scese in campo con incomprensibile lentezza traducendo l'assedio veneto al castello di Soncino in una catastrofe: in un'imboscata, egli si salvò a stento perdendo uomini e cavalli e mancando di soccorrere Nicola Trevisan.

Sembrò che la vacillante fiducia si rinnovasse in Friuli, nello scontro contro gli Ungari: ma dopo la vittoria, la lentezza operativa orientò sfavorevolmente il Senato veneto che comunque aveva continuato ad appoggiarlo. Conclusa la pace con Sigismondo, pertanto, la Serenissima decise di liquidarlo, anche per le sempre più insistenti voci di un suo rapporto segreto con Filippo Maria Visconti: il 18 ottobre del 1432 era fallita anche l'impresa che i Veneziani avevano affidato a Guglielmo Cavalcabò, costretto ad arretrare da Cremona. La circostanza, imputata al disimpegno del Bussone, fu ritenuta una volontaria defezione avallante sospetti che dettero corpo all'accusa di infedeltà. Invitato a Venezia per essere consultato e giuntovi l'8 aprile del 1432 assieme al Gonzaga, il Conte di Carmagnola fu arrestato nel palazzo ducale e deportato nelle prigioni dei Pozzi; tenuto a digiuno tre giorni; torturato e costretto ad ammettersi colpevole di alto tradimento.

La giuria irrogò la pena di morte per decapitazione.

La sera del 5 maggio successivo, alla presenza della moglie e delle figlie, fu data esecuzione alla sentenza: il Senato aveva ordinato che il condannato fosse imbavagliato, per impedire che protestasse la propria innocenza.

Francesco Bussone lasciò quattro figlie: Margherita sposata con Barnabò Sanseverino; Elisabetta con Francesco Visconti; Luchina con Luigi dal Verme; Antonia con Garnerio da Castiglione.

Innocente o colpevole?

Molti Storici sono inclini a ritenere plausibile che egli avesse ceduto alle pressioni viscontee, se non altro per la preoccupazione nutrita nei confronti della famiglia, residente nel Ducato.

Di fatto, il successo di Maclodio allarmò le città della Lega filoveneziana: Ferrara, Mantova, Monferrato, pur mirando a ridimensionare la politica viscontea, non intendevano consentire alla Repubblica marinara di allargare il proprio potere sul territorio. Di fatto, mentre il Bussone veniva giustiziato, Mantova si dissociava dalla coalizione e si rivolgeva all'Imperatore Sigismondo che da Signoria la elevava a Marca.

Di fatto, proprio in quel giorno d'ottobre anche i Savoia, alleati ai Veneziani, a fronte delle iniziali difficoltà del Carmagnola si persuasero che la vittoria arridesse ai Milanesi e si schierarono con essi, mai prevedendone la sconfitta.

Alla fine: leale servitore dell'ingrata Repubblica, il Conte fu sacrificato dalla ragion di stato?

Bartolomeo Colleoni

Del proprio patronimico: Coglione, fu tanto orgoglioso da farne il temuto grido di guerra Coglia e da rappresentarlo nel suo stemma anche quando vi aggiunse i gigli d'oro angioini e le fasce borgognone: non a caso precisava in un atto pubblico che la sua arme gentilizia esibiva duos colionos albos in campo rubeo de supra et unum colionum rubeum in campo albi infra ipsum campum rubeum, in linguaggio araldico troncato d'argento e di rosso a tre paia di coglioni, dall'uno all'altro.

Figlio di Paolo e Ricadonna Saiguini de' Valvassori di Medolago nacque a Solza, piccolo borgo della sponda bergamasca dell'Adda, fra il 1395 e il 1400 e morì a Malpaga il 2 novembre del 1475. La sua, era una famiglia di origine longobarda le cui notizie risalgono alla seconda metà dell'XI secolo e ad un Gisalbertus Attonis, membro di quella Gens nova di sicura fede ghibellina pronta ad imporsi sulla ormai decadente società feudale. Forse capostipite e già indicato con l'appellativo Colione; mediatore di terreni e iscritto fra i Negotiatores per l'attività di brachania; Console di Bergamo nel 1117, costui dispose di un immenso patrimonio immobiliare ed ebbe rapporti privilegiati sia con la Chiesa che con l'Impero, a partire dal diritto di appello concesso da Federico II anche ad un suo discendente. Verso la prima metà del XII secolo, la famiglia fu bandita ma versi il 1170, tornò ad affermarsi nella politica cittadina assieme ai Suardi con i quali divise incarichi pubblici e dignità ecclesiali. Il 23 ottobre del 1404 Paolo Colleoni si impadronì del castello di Trezzo, rendendolo una sorta di enclave indipendente che fronteggiò per anni e con successo i Signori di Milano e la Signoria di Pandolfo Malatesta. L'edificio, alloggiato sulla sponda milanese dell'Adda e vicino al raccordo col Brembo, era stato eretto da Bernabò Visconti e controllava una delle vie di transito al Ducato: era lo stesso in cui il Nobile era morto assassinato l'8 dicembre del 1385.

Nel periodo della sua conquista, la reggenza ducale era affidata a Caterina Visconti e la Signoria di Giovanni Maria era caratterizzata da violenti e frequenti torbidi: Bartolomeo, che conferì alla casata prestigio, potere e ricchezze, profittò di quella condizione di debolezza istituzionale per secondare l'ambizione al ruolo di Comandante Generale dell'esercito veneziano: lo ottenne solo il 2 giugno del 1455.

Aveva iniziato la carriera militare da adolescente, come scudiero presso il Signore di Piacenza Filippo Arcelli. Nel 1424 fu al servizio del Condottiero Jacopo Caldora, col quale entrò nella Corte di Giovanna II di Napoli; partecipò alla battaglia aquilana di quell'anno, contro Braccio da Montone che vi fu sconfitto e ucciso; si distinse nell'assedio di Bologna del 1425 ancora sotto i vessilli del Caldora, per il Papa: l'eco delle sue gesta giunse anche a Venezia ed avviò quel lungo rapporto che, tra luci ed ombre, gli diede finalmente la gloria tanto ambìta. Nel 1431, infatti, entrò al servizio della Serenissima quale Luogotenente del Carmagnola e prese parte al conflitto tra Venezia e Milano distinguendosi a Cremona, in quell'attacco del 17 ottobre fatale al Conte: se costui concluse la carriera nell'ignominia, Bartolomeo conseguì lodi e privilegi e il feudo di Bottanuco, concesso dalla Repubblica per coraggio e competenza.

Era l'inizio dell'arricchimento patrimoniale, ma anche di una fase di incomprensioni poiché, pur a fronte dei riconosciuti meriti, il Senato preferì assegnare il grado di Capitano Generale a Gianfranco Gonzaga tenendo il Colleoni in una condizione di subordine, malgrado le brillanti campagne della Valtellina e della Valcamonica del 1432 e del 1433.

Dopo la Battaglia di Delebio, del 19 novembre del 1432, sfuggito alla cattura di Niccolò Piccinino, Bartolomeo si ritirò nella solitudine delle terre bergamasche e sposò la nobile bresciana Tisbe Martinengo: le nozze lo proiettarono in un contesto sociale, militare e politico più elevato ed ampliarono la sua sfera d'influenza e il suo prestigio.

Ancorché deluso, nel 1437, alla ripresa delle ostilità tra Venezia e Milano parteggiò per la Serenissima e nel 1438 difese Bergamo dall'attacco ancora di Piccinino: le truppe venete, guidate dal Gonzaga subirono una umiliante rotta e, obbligate ad arretrare oltre l'Oglio, spianarono la via a sospetti di tradimento avallati dalla preannunciata intenzione di non rinnovare il contratto d'ingaggio.

Si trattò di un'occasione perduta: il Senato designò Governatore delle truppe veneziane il Gattamelata e Capitano Generale Francesco Sforza: vir strenuus atque impiger rei militari.

Con la Pace di Cavriana del 1441, sollecitata dal Visconti, i rapporti si incrinarono ulteriormente e, alla scadenza ufficiale della condotta, Bartolomeo si pose alle dipendenze del Ducato, ricevendo un castello a Milano e il comando di mille e cinquecento uomini: potette donare alla moglie, allora, il maniero di Adorno e moltissimi gioielli. Tuttavia, l'inimicizia col Piccinino, di cui fu Luogotenente, gli valse un'accusa di favoreggiamento col nemico che lo tenne per un anno ai Forni di Monza. Evaso il 13 agosto del 1447, dopo la morte di Filippo Maria, l'inquieto Colleoni si offrì alla giovane Repubblica ambrosiana su invito di Francesco Sforza: maturarono in quella fase due solide azioni militari che rilanciarono la figura del Condottiero: il massacro della Cavalleria di Rinaldo di Dressey, catturato e rilasciato solo previo pagamento dell'ingente riscatto di quattordicimila corona, durante l'assedio del castello di Bosco Marengo condotto dalle truppe francesi del Duca di Orléans e la sconfitta solenne inflitta alle truppe del Duca di Savoia nell'aprile del 1449 a Romagnano Sesia e a Borgomanero.

La fama del Capitano di Ventura, allora, travalicò ogni confine fino ad immetterlo nel novero internazionale dei Condottieri e a suscitare l'attenzione del borgognone Carlo il Temerario.

Il 15 giugno del 1448 Colleoni tornò a servire Venezia, accettando una vantaggiosa condotta; coprendosi di gloria; accumulando potere e ricchezza. Tuttavia, gli invidiosi intrighi di Gentile da Leonessa lo costrinsero a fuggire per sottrarsi all'arresto disposto dal Doge e a riprendere la militanza al soldo di Francesco Sforza, ormai Signore di Milano. Accusato non a torto di ambiguità dai Milanesi, li abbandonò il 15 febbraio del 1453 rientrando il 12 aprile a Venezia con un nuovo contratto: la Serenissima gli tributò grandi onori e per la prima volta il Consiglio dei Dieci intervenne nelle trattative d'ingaggio trasformandole da abituale negozio contabile-burocratico in atto dalle implicazioni anche politiche per la grande libertà d'azione attribuitagli; per la rilevanza delle somme pattuite – centomila ducati-; per il prestigio riconosciutogli con la promessa di Como, Lodi e della Ghiara d'Adda, se conquistate, e per l'assegnazione del Comando Generale.

Fu l'ultimo passaggio di campo.

Nel 1454, la Pace di Lodi archiviò trent'anni di quella guerra che, con alterne vicende, aveva impegnato Milano e Venezia: Bartolomeo depose le armi.

Il suo spirito inquieto riemerse alla morte di Francesco Sforza, nel marzo del 1466; ma le sue ambizioni furono stroncate dalla successione di Galeazzo Sforza.

Il 1467 poteva essere l'anno giusto: il decesso del Duca aveva rimesso in crisi la pace e, tre anni prima, la morte di Cosimo de' Medici aveva preso ad agitare Firenze nella quale esuli antimedicei capeggiati da Diotisalvi Neroni chiesero l'aiuto del Colleoni contro Piero de' Medici, attraverso il Signore ferrarese Borso d'Este.

L'idea di tornare a combattere e di inserirsi in un contesto che lo avrebbe reso arbitro della situazione fu irresistibile: favorire una Repubblica fiorentina e spezzare l'asse Milano-Firenze avrebbe garantito all'amata Serenissima l'egemonia nell'Italia del Nord.

I Veneziani assecondarono il progetto del Capitano Generale ma non gli confermarono la condotta, benché lo impegnassero anche contro il sodalizio di Galeazzo Sforza con Ferdinando I di Napoli. Di fatto, la fortuna arrise a Bartolomeo fino alla incerta Battaglia della Molinella del 25 luglio del 1467: il Condottiero vi usò le artiglierie, sollevando corale indignazione poiché le armi da fuoco erano giudicate contrarie alla deontologia militare. Accusato di barbarie e di malvagità ed isolato dalla pace intervenuta su pressione di Papa Paolo II l'anno successivo, fu costretto ad archiviare quella che avrebbe otuto trasformarsi in un'epica e gloriosa impresa.

Erano ormai gli anni in cui egli scivolava verso la fine dell'esistenza, sopravvivendo i sentimenti di rivalsa e odio nei confronti di Galeazzo Maria Sforza e la delusione per quella crociata contro gli Aragonesi napoletani che avrebbe guidato se non vi si fosse opposta Firenze, ponendo fine ad una complessa carriera addolcita, nel 1467, dal consenso di Renato d'Angiò ad aggiungere al proprio, il patronimico angioino e a porre nel suo stemma i Gigli d'oro in campo azzurro sui consueti testicoli.

L'ultima occasione per pareggiare i conti all'inviso Galeazzo Maria fu del 1472 quando, spinto dalla mira a cercare aperture commerciali alle Fiandre borgognone, Carlo il Temerario scese in Italia. Coltivando mire sul Ducato di Milano e confidando nel sostegno della politica veneziana di ostilità non solo ai Milanesi ma anche all'Impero, egli offrì al Colleoni una condotta ricchissima e prestigiosa: centocinquantamila ducati annui; il comando di circa tremila uomini; il privilegio di aggiungere al proprio stemma le Fasce di Borgogna. Ma anche questa occasione svanì, poiché all'inizio del 1474 l'avventura francese era di fatto conclusa nel nulla.

Anziano; malato e provato dalla vedovanza e dalla morte della figlia prediletta Medea, il 15 maggio del 1475 il Capitano di Ventura si congedò dalla Serenissima cui aveva deciso di devolvere la gran parte del suo patrimonio: varie proprietà immobiliari e trecentomila ducati contanti. Il testamento conteneva un legato a carico della città: l'elevazione di un monumento in suo onore in piazza san Marco.

Consapevole della sua imminente fine, la Repubblica respinse le sue dimissioni ma la morte sopraggiunse nel palazzo di Malpaga il 2 novembre del 1475: dopo i solenni funerali di Stato, il governo recuperò tutte le concessioni feudali elargitegli durante la sua carriera militare lasciando a sua memoria il monumento equestre del Verrocchio.

Giovanni de' Medici

Detto Giovanni dalle Bande nere; nato a Forlì il 6 aprile del 1498; morto a Mantova il 30 novembre del 1526, fu figlio del fiorentino Giovanni de' Medici detto il Popolano e della pugnace e leggendaria Caterina Sforza, Signora di Imola.

Ritenuto da Niccolò Machiavelli personaggio in grado di unificare l'Italia, egli trascorse l'infanzia in un convento poiché sua madre era prigioniera di Cesare Borgia. Nel 1509, ormai orfano, fu sottoposto alla tutela del Canonico Francesco Fortunati e di Jacopo Salviati, sposo di Lucrezia, figlia di Lorenzo il Magnifico.

Il temperamento aggressivo di Giovanni si rivelò in tutta la sua portata già nel 1511 quando, appena tredicenne, egli fu bandito da Firenze per l'assassinio di un coetaneo, in una rissa fra giovani. Due anni dopo, seguì a Roma il Salviati, designato Ambasciatore e si iscrisse nelle milizie pontificie, suscitando fin da subito l'interesse di Papa Leone X che divenne il suo Pigmalione: il 5 marzo del 1516, debuttò come Comandante di una guarnigione di supporto a Lorenzo de' Medici nella guerra contro Urbino, risoltasi in ventidue giorni per la resa di Francesco Maria della Rovere. In quella circostanza, personalmente addestrata da Giovanni, la squadra esibì doti di disciplina, obbedienza e competenza militare notevoli, brillando per compattezza nella formazione offensiva; rapidità nelle tecniche di guerriglia e omogeneità nell' abbigliamento: elementi enfatizzati dal declino irreversibile della Cavalleria pesante, ora rimpiazzata da cavalli turchi o berberi, piccoli, leggeri, utili alla mobilità dei drappelli e alla formazione degli eserciti inquadrati.

Conclusi gli studi a Bologna alla scuola del Maestro della scuola di scherma Guido Antonio de Luca e deciso a crearsi una propria Compagnia, Giovanni sposò Maria Salviati dalla quale ebbe Cosimo, destinato a diventare granDuca.

In quel periodo, quale nipote di Valentina Visconti, Francesco I avanzava pretese su Milano per diritto di eredità: nel 1515 era sceso in Italia ed aveva condotto una lunga e sanguinosa spedizione e il 13 settembre di quell'anno, sotto Marignano, col supporto veneziano si era scontrato con l'esercito svizzero, intervenuto in aiuto del Duca Massimiliano Sforza. La vittoria aveva garantito alla Francia il controllo del Ducato di Milano. Di conseguenza, Francesco si dispose ad una nuova campagna antimperiale, promettendo all'ormai leggendario e giovane Capitano di Ventura italiano le terre d'Imola e Forlì già Signoria materna.

Giovanni accettò.

Sconfitto nel 1520 in uno scontro presso Falerone un gruppo di ribelli Signori marchigiani tra cui Ludovico Uffreducci e postosi agli ordini di Lutrec, i cui oltre trentamila uomini avrebbero dovuto avere ragione dei meno di ventimila del Colonna, il 30 marzo del 1522 il Condottiero oltrepassò il Po ma alla Bicocca fu sopraffatto dagli Archibugieri spagnoli; ferito ad un braccio e portato a Cremona. Era accompagnato da quel Maresciallo Lescun detto lo Scudo, che negoziò una trattativa segreta col Colonna per una resa a fine giugno. Giovanni se ne indignò, ma le ben pagate Bande nere lasciarono Cremona.

Nel 1521, quando Leone V si alleò con l'Imperatore Carlo V contro Francesco I per reinsediare gli Sforza a Milano e per occupare Parma e Piacenza, egli fu di nuovo ingaggiato e posto a capo della Compagnia delle Lance spezzate, sotto il comando di Prospero Colonna: in novembre esibì tutto il suo valore militare nella Battaglia di Vaprio d'Adda ove, guadato il fiume sorvegliato dai Francesi, li mise in fuga spianando la via del crollo a Pavia, Milano, Parma e Piacenza. Il 1° dicembre, quando l'eco delle sue gesta aveva riempito le contrade europee, il Papa si spense ed egli, fatte annerire in segno di lutto perenne le insegne già a righe bianche e viola, assunse il definitivo soprannome di Giovanni dalle Bande Nere.

In agosto del 1523 fu ancora guerra.

Postosi questa volta al soldo degli Imperiali, egli attaccò il Quartiere Generale francese e mise in rotta il Cavaliere Baiardo cui prese circa trecento ostaggi. Successivamente liquidò la temuta Fanteria elvetica calata in Valtellina in soccorso di costoro e la batté a Caprino bergamasco.

Intanto al soglio pontificio ascendeva il mediceo Clemente VII.

Quale cugino di Caterina Sforza, egli saldò gli ingenti debiti del Capitano di Ventura in cambio del sostegno alla fazione franca.

Nel dicembre del 1524 Giovanni accolse la richiesta.

Francesco I, intanto, tornava in Italia per una nuova spedizione in Lombardia; si acquartierava sotto Pavia; vi veniva duramente confitto e catturato forse da Cesare Hercolani che, per tale evento, fu definito Vincitore di Pavia malgrado, di fatto, il merito dell'azione fosse da attribuirsi ai tre Cavalieri spagnoli Diego D'Avila, Juan de Urbieta e Alonso Pita da Veiga, come confermò Paolo Giovio nella Vita del Marchese di Pescara.

Giovanni e le sue Bande, tuttavia, non parteciparono al decisivo evento bellico. In un tafferuglio del 18 febbraio del 1525, peraltro, egli fu gravemente colpito ad una gamba da un colpo di archibugio e fu trasportato a Piacenza per le cure e ad Abano per la convalescenza. Nella primavera del 1526 Francesco I tornò in libertà previo riscatto e firma del trattato di rinuncia all'Artois, Borgogna, Fiandre e Italia; parallelamente nasceva la Lega antimperiale di Cognac: il Papa si schierò col Sovrano francese ed affidò a Giovanni, che aveva rifiutato un ingaggio della Serenissima, il comando delle truppe pontificie con un contratto di oltre duemilacinquecento ducati d'oro.

Il 6 luglio, a fronte delle imponenti forze dell'Impero, il Capitano Generale Francesco della Rovere abbandonò Milano ritirandosi a Marignano: contro ogni diverso ordine, alla testa di novecento uomini Giovanni attaccò la retroguardia nemica alla confluenza del Mincio col Po e soverchiò i Lanzichenecchi guidati da Georg von Frundsberg.

Fu da quel momento che i Tedeschi, comunque inoltratisi fino a Roma ove si resero autori del celebre sacco, gli appiopparono il soprannome di Gran Diavolo.

La sera del 25 novembre a Governolo, però, egli fu gravemente ferito da un colpo di falconetto: trasportato a Mantova, presso la residenza di Luigi Gonzaga il Rodomonte, ebbe amputata una gamba, mentre non meno di dieci soldati lo tenevano fermo.

Le ultime ore della sua vita, stroncata dalla cancrena, furono raccontate dal testimone oculare Pietro Aretino in una lettera indirizzata a Francesco Albizi: ... sentii due voci sole, e poi chiamarmi, e giunto a lui mi dice: io sono guarito, e voltandosi per tutto ne faceva una gran festa...

Percependo la fine, nel quarto giorno Giovanni si liberò delle bende. Spirò nella notte tra il 29 ed il 30 novembre del 1526, a soli ventotto anni.

Suo nipote Giovanni Girolamo Rossi, in Vita di Giovanni de' Medici, scrisse ...oltre alla gravità della ferita e all'intempestività delle cure, Giovanni morì per l'ignoranza del chirurgo, il quale avendo a segare quella gamba vi lasciò del percosso tanto che il rimanente si putrefece, talchè ne seguì poi la morte sua ....

Carismatico ed audace, fu sepolto vestito dell'armatura nella chiesa mantovana di san Francesco lasciando dietro di sè memoria di ardimento, generosità e lealtà.

Immediatamente dopo la sua morte, si diffuse la voce che fosse stato assassinato per l'uso, durante l'intervento, di ferri avvelenati forse su mandato di Federico Gonzaga.

Prive della sua insostituibile guida, le sue celebri bande si sciolsero.

Bibliografia: