Donne nella Storia

Boadicea

di Ornella Mariani
Boadicea.
Boadicea.

Boadicea

Britannici… sono la figlia degli uomini d’onore. Ma ora non sto combattedo per la mia alimentazione reale… sto combattendo come persona ordinaria che ha perso la sua libertà. Sto combattendo per il mio corpo battuto… Gli dèi ci assegneranno la vendetta che ci meritiamo… vincerete questa battaglia… o morirete

Cosìla Regina Boadicea, vedova del Sovrano degli Iceni Prasutago, alle migliaia di uomini schierati contro la tracotanza romana, perché lavassero l’onta di intollerabili ferite: la fustigazione pubblica; lo stupro delle figlie adolescenti Camorra e Tasca; la riduzione in schiavitù di tutti i membri della famiglia reale; la indebita appropriazione della sua cospicua e legittima eredità.

Era il 60 d. C. .

Circa un secolo avanti, e più propriamente nel55 a. C., Caio Giulio Cesare era sbarcato in Britannia e, solo dopo due dure campagne che lo avevano condotto fino all’odierna Saint Albans, era riuscito ad imporre il tributo alle Genti della parte meridionale dell’isola. Tuttavia i Britanni erano ben lungi dall’essere piegati e bisognò aspettare quasi venti lustri perché l’Imperatore Claudio tentasse l’impresa nella quale il predecessore aveva fallito.

Quella icena, era una tribù di origine celtica, stanziale nei territori di Norfolk e Suffolk fin dal250 a. C. e dedita ad una fiorente attività economica fondata anche sul commercio delle ceramiche negli anni fra il65 a. C. ed il 61 d. C., com’è provato da una vasta monetazione argentea.

Legato al culto delle acque e della natura, il folklore dei Celti, col suo patrimonio di luoghi sacri e arcani e con le saghe popolate da elfi e fate; da gnomi e pentole cariche d’oro; da maghi e mitici guerrieri, oscurava la tradizione greco/latina.

Sulla controversa origine di queste Genti indagò Ammiano Marcellino: esuli greci e lidi; o Troiani sopravvissuti alla diaspora successiva al leggendario incendio; o autoctoni della zona del Reno, migrati per eventi climatici?

Il mistero restò fitto, malgrado le diverse ipotesi: a parere di Erodoto, esse provenivano dalla fascia danubiana; secondo Pitea, erano ben distinte dai Germani; per lo Storico Timo, si trattava dei discendenti di Alate, figlio della ninfa Galatea e del mitico Poliremo, donde la nota ferocia; ad opinione di Recato, erano originarie della regione delle Alpi Marittime; Platone le ritenne rissose e violente; Aristotele le immaginò coraggiose fino alla temerarietà; per Collimano erano ottusi e crudeli eredi dei Titani; Deodoro Siculo le definì semplicemente Galli; la più diffusa tradizione popolare sostenne che fossero giunte dalle stelle per stabilirsi a Thug, rifugiandosi poi ad Iperborea a margine di uno scontro tra Maghi bianchi e Maghi neri.

Mutuandone il termine da celta, i Greci li chiamarono Celti, ovvero il Popolo nascosto.

Abilissimi in agricoltura e nel commercio di cereali, sale e legna; esperti sfruttatori dei giacimenti di stagno, ambra e rame; inventori del compasso, dell’aratro di ferro, del tornio da vasaio e della macina rotante, si distinsero in Sverni; Cedui; Vindici; Amarri; Oboi; Galli; Belgi; Alvei; Cenoni; Britanni; Itti; Scoti; Ceni, con l’interesse per la geometria e per l’astrologia; con l’impostazione comunitaria fondata sul concetto tribale del clan; con la ripartizione sociale in Aristocratici, Sacerdoti, Lavoratori manuali animati, in supplenza di qualsiasi logica organizzativa, solo dal sacro furor gallico: una dissacrante ed incontenibile smania di sangue e morte sancita dall’abitudine ad appendere le teste dei nemici alle pareti delle abitazioni; con la tradizione annotata da Tacito, di tingersi di scuro i corpi e di ripararsi con scudi neri per atterrire gli avversari; con le donne coraggiose, disinibite e, per contro alle matrone romane, inserite a pieno titolo nel contesto della guerra, degli affari, del governo, delle arti e dei mestieri, del diritto a ereditare, a possedere beni, a divorziare, com’è provato dai Tin e dal Mabinogion: raccolte delle attività e delle imprese di eroine e guerriere, a memoria di Boadicea.

Nel suo De Bello Gallico, Cesare aveva fatto cenno agli Iceni, indicandoli stanziali nell’Est Anglia col nome di Cenimagni, ed al loro capo Antedios che, prudentemente dissociatosi dalla resistenza anticapitolina, era stato riconosciuto fra gli Ambacts o clienti dell’Impero. La scelta, però, non era stata condivisa da Aesvnos e Saenuvax, animatori di una dura ribellione soffocata dal Governatore Ostorio Scapula.

Trascinatasi per anni e conclusasi con l’assassinio di Antedios, la rivolta si era allungata al tempo dell’Imperatore Claudio che aveva insediato Prasutago nel ruolo di Sovrano.

Ricco e potente capotribù, egli aveva mantenuto leale fedeltà ai Romani anche durante l’insurrezione del 49, maturata in opposizione al secondo assalto romano del 43.

Inizialmente la conquista era stata incruenta e fondata su trattative e accordi conla Popolazione. Presto, però, un’attività vessatoria suscitò la reazione e nel 59 costrinse Nerone a inviare sul territorio, con l’incarico di Governatore, il crudele e brutale Generale Gaio Svetonio Paolino.

Entrato nel Wales, egli aveva costruito per la Terza Legione un campo alla confluenza del Dee; aveva fortificato Segonzio; aveva superato il Menay e, travolta l’opposizione locale nell’intento di snidarvi i ribelli, si era acquartierato nell’isola di Mona, centro del Druidismo ubicato nel mare Ibernico fra l’antica Britannia e l’attuale Irlanda.

Dagli Annali, Libro XIV, (29-30) si apprende che … Nell’anno dei Consoli Cesennio Peto e Petronio Turpiliano, abbiamo subito una pesante sconfitta in Britannia dove, come già detto, il legato Aulo Didio si era limitato a mantenere le posizioni acquisite, e dove la morte aveva impedito al successore Veranio, dopo modeste incursioni nel territorio dei Siluri, di proseguire le operazioni militari. Aveva egli acquistato, finché visse, grande fama di austero senso d’indipendenza, ma lasciò chiaramente trasparire, nelle ultime parole del testamento, quale ambizioso cortigiano fosse: infatti, dopo una serie di espressioni adulatorie verso Nerone, aggiunse che egli avrebbe consegnare, sottomessa, la provincia se fosse vissuto ancora due anni. Governava comunque al momento la Britannia Svetonio Paolino, emulo di Corbulone per capacità militari e, stando alle voci del popolo, che si affretta a trovare per tutti un rivale, desideroso di eguagliare, piegando i ribelli, la gloria del conquistatore dell’Armenia. Si prepara dunque ad invadere l’isola di Mona, forte per la sua popolazione e rifugio di profughi, e costruisce navi a chiglia piatta contro i fondali bassi e insidiosi. Trasportò così la fanteria, dietro passarono i cavalieri a guado o spingendo a nuoto i cavalli, donde le onde si levavano più alte… sulla spiaggia un ben strano schieramento nemico, denso d’uomini e d’armi e percorso da donne in vesti nere, a mò di furie, impugnanti fiaccole; attorno i Druidi, levate le mani al cielo, lanciavano maledizioni terribili: la novità della scena impressionò i soldati, per cui offrivano, come paralizzati, ai colpi nemici il corpo immobile. Poi stimolati dal comandante e incitandosi a vicenda a non mostrare paura di fronte ad una banda di donne e di invasati, avanzano, abbattono chi li fronteggia e li travolgono nei loro stessi fuochi. Fu imposto, in seguito, ai vinti un presidio e furono abbattuti i boschi consacrati a culti barbarici: era, infatti, un loro atto rituale bagnare gli altari del sangue dei prigionieri e consultare gli dèi con viscere umane. L’operazione era in pieno svolgimento, quando Svetonio venne informato della ribellione della provincia…

Proprio Gaio Svetonio Paolino si saldò alla fioritura del mito dell’affascinante Boadicea, il cui nome in bretone significava Vittoria.

La Regina, che la leggenda vuole sepolta sotto la stazione londinese di King’s Cross, non vinse: pur resistendo fino alla morte nella difesa dei diritti e della cultura del suo Popolo; pur mettendo seriamente in crisi le sorti della Guerra Britannica, dal cui esito dipendeva la credibilità del progetto imperiale; pur gelando i sogni dei Capitolini, nei quali inculcò la paura che sul suo esempio tutte le tribù celtiche potessero in un sol colpo fondersi e spezzare le catene dell’oppressione straniera, fu sconfitta.

Due illustri Storici incorniciarono le sue imprese: Tacito nell’Agricola e negli Annali, ove precisò che, … neque enim sexus in imperiis discernunt…, ella incitava la sua gente a reagire al giogo dell’oppressione; Dione Cassio nella Storia romana, ove così scrisse: … un disastro spaventoso accadde in Britannia. Due città furono saccheggiate, 80mila romani e loro alleati perirono e l’isola per Roma fu perduta. Per di più, tutta questa rovina venne causata ai Romani da una donna, un fatto che già di per sé produsse loro la più grande vergogna… La persona che era stata scelta come loro capo e che aveva comandato la conduzione dell’intera guerra era Boudica, una britanna di stirpe reale che possedeva un’intelligenza maggiore di quella delle altre donne… Era di statura imponente, dall’aspetto terribile, di sguardo lampeggiante ferocissimo e di voce glaciale; una gran massa di capelli fulvi le calava sulle spalle; intorno alla sua gola c’era una grossa catena d’oro e indossava una tunica di vari colori con sopra un mantello fermato da una fibbia. Questo era il suo invariabile abbigliamento

Il pretesto per occuparela Britanniaera stato offerto a Claudio da un discendente di Commio. Si trattava di Verica che, guerreggiando contro i Trinovantes e perduta tutta la parte settentrionale del suo territorio, nel 42 si era rivolto all’Imperatore fornendogli la sponda per l’invasione della regione nel successivo anno.

Sbarcati nel Kent, vinto e deportato il ribelle Caractatus, gli Imperiali andarono incontro ad un periodo di pace cui rilevante contributo fornì il potente e saggio cliente romano Prasutago. Mai rassegnato alla dura colonizzazione straniera, ma dotato di spiccato pragmatismo e di solida esperienza diplomatica, egli era divenuto amico di Roma; aveva mantenuto il fragile equilibrio della improbabile coesistenza tra la tracotanza degli invasori e l’insopprimibile senso di libertà delle sue Famiglie; aveva caratterizzato di benessere e prosperità il suo governo, nella cui guida era fiancheggiato dalla bellissima ed orgogliosa Boadicea, sposata attorno al 48. Tuttavia, alla morte di Claudio, l’avvento di Nerone e della sua aggressiva politica frantumò la debole tregua tra Iceni ed Impero poiché Roma esigeva l’immediata restituzione dei congrui finanziamenti offerti al Sovrano dalla precedente amministrazione. Così, impensierito dall’atteggiamento ostile dell’Imperatore, nel 70, sul letto di morte ed in assenza di figli maschi, con estrema lucidità Prasutago dispose l’equa distribuzione del suo enorme patrimonio tra la moglie, le due figlie e lo stesso Nerone, nella convinzione di garantire protezione ai suoi congiunti.

Quel lascito testamentario non risultò gradito al Senato.

Roma non negoziava.

Roma esigeva e, soprattutto, si opponeva all’affidamento del governo della regione alla vedova: tutti i territori già amministrati da Prasutago dovevano, senza condizioni, passare sotto il controllo delle insegne imperiali.

Così, prima di confiscarle il patrimonio ereditato, l’Autorità locale fece sapere a Boadicea che, se non avesse ceduto ogni bene, sarebbe stata flagellata.

A fronte delle esitazioni della Regina, senza porre indugio, il Governatore della Provincia Cato Deciano dette concreta applicazione alla minaccia: dopo avere invaso e saccheggiato il territorio; dopo avere avviato una serie di soverchierie e vessazioni contro i Notabili delle tribù e contro i membri della Corte a lei fedeli; dopo averne catturato e deportato i Familiari, la fece brutalmente fustigare in pubblico e ne passò alla truppa le figlie adolescenti, com’è documentato da tre fonti: Agricola ed Annali di Tacito ed Epitomi di Dione Cassio.

E’ evidente che la provocatoria iniziativa mirava a rafforzare l’obbligo alla subalternità a Roma e a ridimensionare l’aspirazione autonomistica icena. Tuttavia, la violenza esercitata sulla Regina e sulla sua giovane prole assunse un tale valore simbolico da tradursi in imperdonabile affronto perla Comunità, testimoniando l’impossibile coesistenza pacifica fra invasi ed invasori; denunciando il carattere difensivo di un conflitto al cui interno, lungi dal mirare al potere, Boadicea protesse i suoi diritti e quelli del suo Popolo; evidenziando nella sua Gente non la smania di vendetta, ma il rigoroso imperativo morale a difendere una Donna non in quanto Regina, ma in quanto vedova oltraggiata.

In definitiva, saldandosi al malcontento popolare contro le angherie, gli abusi e l’inasprimento fiscale della dominazione straniera, quel gesto scatenò una reazione fra le più sanguinose della storia della Roma imperiale e, al di là dell’incarnazione di un mero topos letterario, Boadicea vi giocò un ruolo di primissimo piano: manifestando sprezzo per ogni sorta di limitazione della libertà, rilanciò il prestigio di cui le donne celtiche godevano, a conferma di una tradizione di potere femminile già espressa dalla mitica Cartimandua.

La ben nota Regina dei Briganti, fin dal secondo tentativo d’invasione del 43 d. C., sotto il governo di Claudio, contenendone l’impatto devastante, aveva adottato la linea della collaborazione con l’invasore e, impegnandosi alla neutralità a fronte di eventuali rivolte antiromane, aveva stretto col Generale Plauto un patto di non belligeranza. Quando nel 50 una parte della sua gente si era schierata con il ribelle Caractaco, sottraendo l’intera tribù alle rappresaglie imperiali, ella consegnò il rivoltoso che pure le aveva chiesto asilo, consentendone la deportazione a Roma; conservando il potere sul Nord britannico e godendo di quella amicizia con l’Imperatore rivelatasi vitale quando, sposata a Venutius, apertamente ostile all’elemento straniero, poté sostituirlo con Vellocatus ed essere salvata dalle Legioni romane dalle insurrezioni del suo stesso Popolo. Non a caso Tacito fornì della Sovrana una immagine forte di talento politico e abilità diplomatica, evidenziando che tali prerogative erano considerate appannaggio esclusivamente maschile.

E non solo Cartimandua!

Fra le donne meritevoli dell’ammirato rispetto dei Posteri, con Boadicea spiccala Regina Chiomarache, rapita e violentata da un centurione, al momento del rilascio sfilò la spada al suo aguzzino proprio mentre egli si chinava a raccogliere l’oro del riscatto riscosso e gli recise di netto la testa dal collo, prima di esibire al marito il trofeo sanguinante.

Boadicea, la cui presumibile età oscillava fra i trenta e i quaranta anni; la cui statua di bronzo ubicata accanto al ponte di Westminster vigila sul Big Ben; la cui vicenda personale e politica si propone nastro della memoria di una tradizione di governi femminili determinati e irriducibili; la cui temeraria risolutezza completò con Cleopatra e Zenobia una mitica triade, dando vita al Pantheon delle donne capaci di appannare la potenza romana, sopportò l’affronto ed organizzò la tenace azione di rivalsa di un Popolo scontento, derubato e perseguitato: quel duplice e intollerabile oltraggio aveva ferito l’ onore di tutte le tribù che in lei si identificavano e, legandosi alle prevaricazioni ed alle angherie già poste in essere dagli invasori, costituì l’ elemento d’insurrezione contro la dominazione attraverso una rivolta considerata fra le più drammatiche della Storia e di cui Tacito ascrisse tutta la colpa proprio alla irresponsabile condotta del Legato Cato Deciano che … con la sua rapacità aveva condotto la provincia alla guerra

Quello stupro e quella flagellazione in danno di donne, peraltro di sangue reale, furono un atto rituale implicante un sottile significato paradigmatico: non la mera profanazione fisica, ma l’umiliazione psicologica dell’ assoggettamento di un Popolo che ne fece il veicolo di una incontenibile esplosione di sdegnata violenza; la scintilla di una cruenta reazione; la ragione armata di una irriducibile rivolta. Come sprezzantemente commentò ancora Tacito nel descrivere le consuetudini popolari, raccolte sotto l’energico polso di Boadicea, alfiere della guerra per l’indipendenza nazionale, intere armate di Iceni scesero in campo contro i Romani mostrando di non operare distinzioni di sesso e di casta nell’attribuzione delle cariche di comando.

La circostanza fu confermata anche da Dione Cassio il quale, imputandole le disfatte imperiali, scrisse che per giunta … quella rovina vene ai romani da una donna, fatto che causò loro la più grande vergogna

Proprio Dione la ritrasse molto alta; col viso illuminato da lunghissimi capelli rossi; con voce di timbro gutturale e duro; con piglio arrogante ed imperioso quando, pur ornata di vistosi gioielli e coperta da un ampio mantello trattenuto da una fibbia sul petto, agitava minacciosa una lunga lancia ed esaltava alla vendetta.

Indignata dal tentativo di aggiogamento della sua fiera gente; dal progetto di definitiva annessione delle sue terre all’Impero e dall’infamante trattamento riservato alla famiglia; certa che anche la morte misteriosa del coniuge fosse ascrivibile a un avvelenamento organizzato dagli usurpatori; decisa a farsi giustizia e a vendicare il disonore delle figlie, ella seminò un’onda di incontenibile nazionalismo nei Britanni dell’East-Anglia ponendosi alla testa di una imponente e contagiosa rivoluzione: sostanzialmente dal terreno politico, lo scontro era scantonato nell’àmbito sociale contrapponendo la proclività al matriarcato della tradizione culturale gallico/celtica alla usanza latino/romana incline a considerare la donna un oggetto di proprietà.

In quella stagione, la condotta persecutoria ed arrogante degli oppressori, dediti allo sfruttamento finanziario ed alla appropriazione delle terre, a Camalodunum si era spinta alla elevazione di un tempio al divo Claudio.

Fu la goccia che fece traboccare il vaso: la circostanza venne infatti considerata una intollerabile e provocatoria manifestazione di sprezzo della religione localmente praticata.

Le donne icene insorsero e infiammarono gli animi maschili con predicazioni e furore annunciante rovine e lutti, a margine del misterioso crollo della statua della Vittoria: l’immagine delle acque dell’oceano arrossato dal sangue celtico si trasformò in un ulteriore, corale grido di rivolta poiché il violento processo di romanizzazione metteva in gioco e schiacciava tutte le libertà, Tutti i diritti/https://icasinononaams.com/ e tutte le inalienabili tensioni all’autonomia.

Così, in assenza del temuto ed inviso Svetonio Paolino, Boadicea organizzò l’attività di sedizione coinvolgendo tutta l’Anglia orientale. Poi, reclutati migliaia di uomini anche tra i Trinovanti, a loro volta animati da un irriducibile odio per i Veterani che, inviati come coloni a Camolodunum, li depredavano dei beni e li fiaccavano con indicibili soverchierie, avviò una sistematica e spietata campagna di eliminazione dei nemici dalle sue terre con una serie di indiscriminate e cruente incursioni sui presidi romani.

Sottostimando la portata della ribellione, le risorse della Sovrana ed i pericoli della sua legittima collera, Cato Deciano si limitò all’invio di un esiguo manipolo di combattenti, inadeguatamente armati ed incapaci anche di individuare i referenti della ribellione, come si deduce dagli Annali, Libro XIV (32) … intanto, senza evidente motivo, crollò, a Camuloduno, la statua della Vittoria, rovesciandosi indietro, quasi arretrasse di fronte ai nemici. E donne invasate da furore profetico annunciarono imminente la rovina; grida straniere s’erano udite nella curia romana locale; il teatro aveva echeggiato di ululati e s’era vista nel Tamigi l’immagine della colonia distrutta. La tinta sanguigna assunta dall’oceano e quelli che sembravano, al ritirarsi della marea, corpi umani erano interpretati come segni di speranza dai Britanni e motivo di apprensione per i Veterani. Ma poiché Svetonio era lontano, chiesero aiuto al procuratore Cato Deciano. E questi mandò non più di duecento uomini, con armamento peraltro insufficiente; eppure in città il presidio militare era modesto. Contavano sulla protezione del tempio e, intralciati da quanti, segretamente complici della rivolta, influivano negativamente sulle loro decisioni, non avevano costruito né una fossa né un trinceramento e non avevano allontanato vecchi e donne, per lasciare la difesa ai soli giovani: incauti, come se fossero in mezzo a un territorio pacificato, si trovarono circondati da una massa di barbari. Tutto il resto subì al primo assalto devastazioni e incendi: il tempio in cui i soldati si erano ammassati fu assediato per due giorni ed espugnato. Vincitori, i Britanni affrontarono Petilio Ceriale, legato della nona legione, che accorreva in aiuto: sgominarono la legione massacrando tutta la fanteria. Ceriale sfuggì alla strage con la cavalleria e riparò dietro le difese del campo. Impaurito dalla disfatta e dall’odio della provincia, che la sua avidità aveva spinto alla guerra, il procuratore Cato passò in Gallia …

I Barbari fecero scempio di Camalodunum e, dopo due giorni di assedio, la dettero al saccheggio e alle fiamme distruggendo il tempio nel quale gli uomini della guarnigione si erano invano asserragliati, preferendo l’ignominia della resa alla certezza della morte.

La notizia dell’eccidio infuriò Svetonio: il furore della virago celtica, ritta sul suo carro alla testa delle agguerrite schiere, si era abbattuto sulla colonia romana e, benché il sangue veterano scorresse dovunque, la collera icena era tutt’altro che placata: galvanizzata dal successo, la scomposta armata britannica puntava su Londra.

In quella fase, in soccorso ai superstiti, mosse la temuta e imbattuta IX legione: l’Hispana, sotto il comando di Petilio Ceriale. Ma lo scontro con i ribelli si risolse in un nuovo e drammatico eccidio calcolato in molte decine di migliaia di morti, a margine di un’imboscata dei Britanni che fecero strage della fanteria, mentre Ceriale riusciva a mettersi in salvo con pezzi di cavalleria e mentre il Procuratore Cato Deciano, in preda al più indignato risentimento, puntava a marce forzate versola Gallia.

Per l’orgoglio imperiale la sconfitta era resa più bruciante dall’essere stata inflitta da una donna che aveva coraggiosamente messo in campo la libertà e la sopravvivenza sua e della sua gente, contro l’oppressione colonialista: la lucida Regina/guerriera aveva fatto suo il dramma delle annose persecuzioni subìte dai Druidi e dalle tribù insofferenti al giogo di un sempre più oneroso sistema fiscale.

Lutti e devastazioni ricaddero sulle strutture a supporto delle truppe occupanti: gli insorti miravano a sfondare anche la resistenza di Verulanium e di Londinium, dopo aver reso inservibili vari oppida ed avamposti militari romani. Forse davvero, come Tacito annotò, la presenza imperiale rischiò di estinguersi in un bagno di sangue poiché furono trucidate molte decine di migliaia di uomini, compresi gli alleati bretoni: l’esercito capitolino era stato pressosché decapitato.

Non c’era più tempo da perdere: per Svetonio Paolino, la rossa Boadicea era diventata una dolorosa e pericolosa spina nel fianco della credibilità di Roma.

Invano tentando di prevenire il disastro e puntando su Londinium, teatro della rivolta e città nodale per i traffici di merci, così anticipando le mosse della spietata rivale, lo sbigottito e frastornato Svetonio decise che non le avrebbe concesso sconti in campo e, nel dubbio fra sacrificare l’accorsato centro di transito o deputarlo a Quartier Generale, constatata l’inconsistenza delle truppe a disposizione, optò per la prima ipotesi ritenendo di sacrificare la città usandola come piattaforma di salvataggio dell’intera regione.

Gli Annali, Libro XIV (33-34) raccontano che … Svetonio… aprendosi con straordinaria fermezza un varco in mezzo ai nemici, si diresse a Londinio, non ancora insignita del titolo di colonia, ma assai nota per i grandi traffici di mercanti e di merci… Fu irremovibile dinanzi alle scene di pianto di quanti imploravano la sua protezione e diede il segnale della partenza, accogliendo tra le sue fila quanti volessero seguirlo; chi rimase, perché inadatto alla guerra o per sesso o per età o perché trattenuto dall’attaccamento al luogo, fu sterminato dal nemico. Analoga strage subì il municipio di Verulamio perché i barbari, entusiasti di fronte alla preda, ma schivi alle fatiche, evitando le piazzeforti e i presidi armati, si gettavano sui depositi militari, dove ricco è il bottino e malagevole la difesa. Caddero, ed è assodato, circa settantamila tra cittadini e alleati nei luoghi che ho sopra ricordato.  …

Ed infatti, accolti nelle sue fila tutti quelli che, pur di salvarsi, chiedevano di essere reclutati, abbandonò alla morte quanti, implorando la sua protezione, erano impossibilitati per sesso o per età a combattere: disponeva ormai solo della XIV legione, con i Veterani della XX e gli Ausiliari delle più vicine guarnigioni, per un totale di circa diecimila uomini di provata esperienza militare, quando decise di non attendere oltre e di affrontare i nemici in campo aperto mentre a Verulanium si celebrava un’altra carneficina. Tuttavia, eludendo i presidi armati, i ribelli aggredirono i depositi militari vanificando, con i loro insistenti affondi, i suoi sforzi strategici.

Persero la vita moltissime migliaia di soldati: gli insorti, lungi dal trarli prigionieri per poi riutilizzarli nel commercio degli schiavi, preferivano sottoporli a roghi e crocifissioni di massa che placassero l’ardente spirito di vendetta mentre Boadicea guidava il suo carro fra le pietre e le rovine fumanti di una città fantasma.

Ormai alle corde, Svetonio convocò tutti i contingenti dislocati sul territorio ed in particolare la IIlegione: la Augusta, il cui comandante Penio Postumo neppure si presentò.

Come avere ragione delle centinaia di migliaia di uomini di Boadicea?

Col ricorso alla consolidata tecnica strategica romana, scegliendo egli stesso la geografia del terreno dello scontro finale e fissandolo in una spianata a valle di una stretta gola a Waitling: avere il nemico di fronte e inibirgli ogni via d’uscita attraverso la cornice di una fitta boscaglia avrebbe assicurato risultati favorevoli.

Disposti i Legionari in fila serrate e protetti i lati con fanteria leggera e cavalleria, si mise in attesa di quella massiccia, scomposta e spavalda orda appiedata, quantificata da Dione Cassio in oltre duecentotrentamila unità equipaggiate in modo sommario ed incitate dalle donne, chiamate a testimoniare l’impresa e ad esaltare l’ardimento maschile dall’interno di carrozzoni alloggiati lungo il margine estero delle pianura.

L’indomita vestale della ribellione era pronta: alla vigilia della battaglia campale, al pari di un Cesare, passò in rassegna le truppe incoraggiandole e facendo appello all’urgenza del riscatto delle libertà negate e dell’onore delle figlie, portate seco sul carro.

Negli Annali, libro XIV (35) è scritto che … non era insolito… per i Britanni combattere sotto la guida di una donna; ma lei ora non intendeva, quale discendente da nobili antenati, rifarsi della perdita del regno e delle ricchezze bensì, come una donna qualunque, vendicare la perdita della libertà, riscattare il proprio corpo fustigato e il pudore violato delle figlie. Le voglie dei Romani si erano spinte così avanti da non lasciare inviolati i corpi, senza riguardo per la vecchiaia o la verginità. Ma c’erano adesso i Numi della giusta vendetta: caduta era la legione che aveva osato dare battaglia; gli altri stavano nascosti negli accampamenti e spiavano il modo di fuggire. E questi Romani, che non avrebbero sopportato il fragore e le grida di tante migliaia di uomini, come potevano reggere all’assalto e alla mischia? Se valutavano il numero degli uomini in campo e le ragioni della guerra, non c’erano dubbi: dovevano, in quella battaglia, o vincere o morire. Questa era la scelta compiuta da una donna: gli uomini tenessero pure alla vita e fossero schiavi…

Gli Dèi erano dalla sua parte: nessuno avrebbe potuto far fronte all’ imponenza delle sue falangi e alla fondatezza delle sue ragioni.

Anche gli auspici erano stati inequivoci, quando era stata liberata la lepre sacra alla dèa Adraste!

Forse gridò Vae victis, prendendo a prestito la medesima esclamazione da Tito Livio accreditata a Brenno, saccheggiatore e fustigatore dell’orgoglio romano in quell’umiliante dies ater del 18 luglio del386 a. C. ben vivo nella memoria dell’odio anticeltico.

Analoghe esortazioni, dal canto suo Svetonio, rivolgeva alle sue truppe: vincere o morire i battaglia, piuttosto che cadere nelle mani della sanguinaria Regina; non prestarsi alla suggestione delle urla e del frastuono scatenato da quella massa eterogenea nella quale gli sembravano presenti più donne che non soldati già candidati a cadere sotto il ferro dell’esperienza romana: la compattezza delle fila imperiali avrebbe dovuto spezzarsi solo dopo il primo lancio dei giavellotti, per procedere all’impietoso affondo a colpi di spada.

Anch’egli contava sul favore degli dèi che sempre ... si alleano con coloro cui è fatto torto… siamo Romani… abbiamo trionfato su tutta l’umanità

Ricevuto il segnale d’attacco, i Legionari avanzarono in formazione a cuneo, mentre gli Ausiliari caricavano con violenza e la cavalleria di rincalzo, lancia in resta, travolgeva le prime fasce di resistenza.

Negli Annali, libro XIV (37), si legge che … in un primo momento la legione non si mosse, tenendosi nella gola come in un riparo ma, poi, al farsi sotto dei nemici, scaricati tutti i colpi su di loro con lanci precisi, si buttò avanti a forma di cuneo. Altrettanto violenta la carica degli ausiliari; la cavalleria travolse, a lancia in resta, chi si parava davanti a opporre resistenza. Gli altri volsero le spalle in una fuga difficoltosa… e i soldati coinvolgevano nel massacro anche le donne mentre, trafitti dai dardi, anche gli animali contribuivano a far grande il mucchio di cadaveri

Arretrando, gli sbigottiti Britanni cercarono vie di fuga ma furono intralciati dai loro stessi carri, sui quali si abbatté una serrata pioggia di frecce: Svetonio Paolino aveva utilizzato ogni possibile risorsa ambientale, alloggiando le avanguardie in un vallone riparato ai lati e alle spalle da alte colline. Impediti dall’attacco ai fianchi e contrastati in ogni possibile manovra di ripiego, i ribelli furono costretti a subire battaglia frontale esponendosi all’azione massiccia e implacabile delle retrovie; tuttavia, con temeraria e irriducibile ostinazione, contando sull’evidente superiorità numerica, provarono a sfilacciare la compattezza capitolina incuneandosi di forza contro un muro invalicabile di giavellotti da lancio.

Fu una carneficina: preda del disorientamento, caddero a migliaia nella tenaglia romana indietreggiando e scompostamente ammassandosi. Gli risultava di difficile comprensione che, più di un temerario ardimento, contasse la ragionata abilità strategica. Quando, soverchiati, si dettero a tentativi di fuga, furono caricati d’impeto dall’imbattibile manovra della testuggine: quel muro imperforabile di scudi alzati e posti a protezione ciascuno del corpo del compagno di lato fece da apripista alla cavalleria che, a colpi di lancia, scompigliò e sventrò i fianchi celtici disordinatamente schierati lungo il canalone.

Ammassatisi verso il centro della loro formazione, sempre più confusi i Britanni brandirono invano le lunghe spade, prima di rendersi conto che il gladio romano era più funzionale alle battaglie di mischia.

Svetonio aveva conseguito l’ambìto risultato di una vittoria schiacciante quanto insperata, fornitagli da un esiguo ma efficiente manipolo contro una impressionante massa di nemici.

Le ombre della sera scesero su uno spaventoso e  desolante scenario di morte: gli uomini della sopravvissuta e sgomenta Boadicea erano caduti innumeri in una immane catastrofe.

A parere di Tacito, sul terreno restarono oltre ottantamila vittime, contro soli quattrocento Legionari: l’avanzata della regina ribelle nei pressi del fiume Anker era stata definitivamente spazzata assieme alla vita delle sue giovani figlie, finite sotto il ferro dell’usurpatore.

La battaglia fu seguita dal saccheggio del territorio; dalla sua annessione all’ Impero; dalla riduzione dei superstiti i schiavitù e da terrificanti rappresaglie.

Penio Postumo, Prefetto della Seconda Legione, informato del travolgente successo della XIV e della XX, avendo avuto in spregio gli ordini di Svetonio e avendo defraudato i suoi uomini del diritto a partecipare agli onori conseguiti da quella vittoria, si dette la morte con un colpo di spada, come ancora Tacito annotò nel Libro XIV degli Annali:  … la gloria di quel giorno fu splendida, all’ altezza delle vittorie di un tempo: alcuni storici parlano infatti di poco meno di ottantamila Britanni uccisi contro circa quattrocento dei nostri caduti e un numero poco superiore di feriti … il prefetto del campo della seconda legione Penio Postumo, appreso il successo della quattordicesima e della ventesima, poiché, violando la disciplina militare, non aveva eseguito gli ordini del comandante e aveva, così, defraudato la sua Legione di una simile gloria, si trafisse con la spada

Coerente col suo sprezzo per il nemico, che nel corso della battaglia più volte aveva tentato di speronare e bloccare il suo carro per misurarsi con lei in un duello mortale, piuttosto che consegnarglisi, la pugnace Boadicea con appassionato rigore si dette la morte col veleno.

Boudicca vitam veneno finivit.

Fra la morte di Prasutago e quella irrevocabile disfatta era intercorsa una manciata di mesi sanguinosi ed interminabili; vissuti come un incubo per i Romani; vestiti di speranza per quelle popolazioni che orientarono la loro legittima protesta verso la disfatta.

Il sogno di una donna che non rincorse il potere né ambì il successo, ma aspirò al solo trionfo della giustizia, della dignità e della libertà da garantire a sé ed alle sue genti, era fallito ma aveva amplificato la memoria delle sue gesta, del suo coraggio, del suo carisma, del suo ardore nazionalista, del suo mito. Fu lo stesso sogno sognato in appresso da Zenobia: intenso, breve, glorioso e amaro indicatore della ingenuità di donne che, seppur dotate di ardimento e intelligenza, soccombono a fronte della protervia della forza maschile.

Bibliografia