Famiglie

Dai Drengot ai d'Hauteville: Viaggio nell'Italia dei Normanni

di Ornella Mariani
Regno di Sicilia nella sua massima espansione territoriale
Regno di Sicilia nella sua massima espansione territoriale

Quando i Normanni vi giunsero per la prima volta, il Mezzogiorno d'Italia era una realtà complessa per la diversità delle tradizioni sociali, amministrative e religiose generate dalla promiscuità etnica: fin dal X secolo, esso consisteva di nove Stati: Emirato Musulmano di Sicilia; Catapanato bizantino d'Italia - per metàtesi divenuto Capitanata - comprensivo di Calabria e Puglia; Principati Longobardi di Benevento, Salerno e Capua; Ducati di Gaeta, Napoli, Sorrento ed Amalfi. Nel Sud insulare, poi, dopo varie incursioni saracene successive alla morte del Profeta Maometto, si erano insediati i Musulmani che, incoraggiati dai Napoletani, in cambio di concessioni commerciali, in una manciata di lustri avevano imposto all'autocrazia bizantina di arretrare ed avevano reso la Sicilia il più prestigioso avamposto del Nord Africa.
Palermo, nel suo ruolo di capitale, era diventata la città più grande del bacino mediterraneo, dopo Costantinopoli e la più bella, dopo Baghdad. Piantagioni di agrumi, canna da zucchero, cotone, gelsi, palma da dattero, papiri, meloni, pistacchi, riso, ulivi, indaco, hennè; industria della seta e della pesca, in particolare del corallo; sfruttamento di cave e miniere di ferro, argento, piombo, zolfo, mercurio; allevamento di bestiame, avevano fatto dell'isola un ambìto punto di riferimento anche per la strategica posizione geografica. Crocevia fra Europa ed Africa, essa realizzò il grande sogno dei Normanni che, sfruttando i sentimenti antibizantini delle popolazioni meridionali e mirando a conseguire legittimazione istituzionale, sullo sfondo del grande scisma apertosi fra le Chiesa d'Oriente e d'Occidente e della frantumazione del progetto di alleanza romano-bizantina, avviarono una articolata e compatta campagna di conquista muovendo dal teatro della loro grandiosità militare: la Puglia. In meno di due secoli, la civiltà normanno-arabo-occidentale, testimoniata da una realtà intellettuale, economica, artistica ed architettonica senza pari, trasformò il territorio in una sorta di Terra promessa e spianò la via al leggendario Stupor Mundi: Federico II.

Dunque non furono i Barbari del Nord iperboreo, insediati nella Normandia donde mutuarono il nome, a conquistare il Sud, ma fu piuttosto il Sud a conquistare loro. Essi, tuttavia, condussero il territorio nell'orbita occidentale, restituendolo alla confessione romana, al liguaggio latino ed alla cultura europea instaurando nel Meridione una unità politica mai realizzata prima, mai più dopo.

Quella straordinaria pagina di Storia si saldò fin da subito ai destini di due grandi famiglie, divenute poi due grandi dinastie tese alla comune ambizione di controllare le magiche terre oltre i confini della Chiesa: i Drengot e i d'Hauteville, la cui infaticabile attività militare dette vita, nel Natale del 1130, al più prestigioso Stato unitario a forma monarchica mai conosciuto, malgrado le loro vicende si aggrovigliassero in parentele che accesero antagonismi violenti; rivalità spietate ed odi irriducibili.

Certa storiografia li riassume, fino a sottacere la portata storica dell'azione degli uni e ad assegnare ai soli altri meriti e valori. E', invece, indubbio che il ridimensionamento dello strapotere ecclesiale e l'avvìo della campagna di espulsione dei Bizantini furono opera dei Drengot.
Quanto ai d'Hauteville, fu la Chiesa ad enfatizzarne le gesta poiché, consapevole di non poterli dominare, li subì nella errata convinzione di contenerli nelle zone d'influenza orientale e in quella improbabile coesistenza con i Longobardi delle aree salernitane che gli eventi sconfessarono.

In quel periodo, il Papato era indebolito delle durissima contrapposizione con l'Imperatore Enrico IV e dai continui torbidi accesi dal Popolo capitolino: fu il più spregiudicato dei d'Hauteville a sfruttare tali circostanze a proprio vantaggio, rendendo fruttuose tutte le sue iniziative militari.
La caduta di Bari e la fine della dominazione bizantina nel 1071; l'estensione del protettorato normanno ad Amalfi nel 1076; la resa di Salerno nel 1077; la libertà di navigazione nel canale di Otranto, sottratto al monopolio veneto, furono propedeutici alla sua marcia verso i Balcani, nel velleitario progetto di controllare l'intero Mare Nostrum: se non avesse dovuto soccorrere Gregorio VII, assediato da Enrico IV; se avesse aggredito prima le coste orientali; se non fosse stato stroncato dalla morte sul versante adriatico/bizantino nel 1085, quale sarebbe stato lo scenario politico-geografico del Sud italiano tanto vigorosamente gestito da questo personaggio e dai suoi germani sempre assetati di ritorsioni, fino a ridurre l'importanza delle imprese dei loro parenti Drengot, che li avevano preceduti di qualche lunghezza?

Quando costoro giunsero in Italia, seppur arabizzata, la Sicilia contrapponeva nella sua parte orientale il Cristianesimo bizantino all'Islam ed ospitava massicci nuclei latino-cattolico-romani; la fascia meridionale della Calabria si riconosceva nella Chiesa di Bisanzio, di contro alla presenza del Cattolicesimo nella zona centrosettentrionale; nel territorio a Nord della Puglia bizantina i Longobardi e le genti da essi aggiogate erano di fede cristiana. Era il secondo decennio dell'XI secolo: essi scelsero la fertile area della Campania Felix.

Erano sei pugnaci fratelli in fuga dal borgo francese del Quarrel: a carico del maggiore di loro, Giselberto, il Duca Rolf di Normandia aveva emesso un ordine di arresto per omicidio.
Approdati nella generosa Terra di Lavoro, vi condussero una proficua campagna di restaurazione anche della religione cristiana in zone in cui l'ortodossia orientale aveva frantumato l'unità religiosa di Roma.
Erano arditi e capaci mercenari: si ritagliarono presto uno spazio di contrattazione e di potere all' interno delle rivalità fra Potentati locali.
La conflittualità fra Bizantini e Longobardi, aggiunta ai continui fermenti delle popolazioni indigene, costituì il primo elemento del loro insediamento sul territorio.

Il carismatico Rainulfo I amministrò ogni attività familiare: abile, coraggioso, scaltro, egli si pose al servizio di Melo di Bari, portavoce dell'insofferenza al giogo del fisco bizantino, ed avvalorò la diceria che quaranta Longobardi armati non osassero ingaggiare battaglia con un solo Normanno.

La storia sua e dei suoi protervi ed irriducibili fratelli si fissa ad una serie di date cruciali, dalle quali dedurre quella abilità militare e quel genio politico, presto offuscato dai d'Hauteville: Guglielmo, Ruggero, Roberto il Guiscardo, Umfredo, Drogone, provenienti dalla penisola del Cotentin.
Insieme, comunque, nel bene e nel male, scrissero quell'epica pagina che mutò il volto del Sud.

Dopo aver servito i Conti di Comino, alla testa dei suoi Rainulfo difese da Pandolfo di Capua il Duca partenopeo Sergio IV, che lo compensò offrendogli la mano della dorella, già vedova di Leone Duca di Caserta, e la Contea di Aversa, sorta sulle rovine dell'antica Atella in posizione intermedia fra Napoli e Capua. In seguito, dopo essere stato al soldo di Guaimaro IV di Salerno, sostenne il bizantino Maniace nel tentativo d'invasione della Sicilia, attuato nel 1039; ma, non compensato secondo i patti, abbandonò il progetto e si offrì a Melo ed Agiro di Bari, desiderosi di affrancarsi dall'oppressione bizantina: le battaglie dell'Olivento, dell'Ofanto e di Montepeloso gli dettero ragione.
Erano appena giunti nel Sud anche gli Hauteville: insieme istituirono la Contea di Puglia ponendole al centro Melfi, definita Porte de Puille da Amato di Montecassino; insieme piegarono l'orgoglio bizantino; insieme formarono uno Stato fondato sul concetto organico del Feudalesimo: un progetto la cui evoluzione politica si srotolò fra la sconfitta papale di Civitate ed il trattato di Melfi.

Poi separarono le loro strade: i Drengot coltivando interessi in area campano/dauna, gli Hauteville difendendo il Papato dalle pressioni di Enrico IV e restituendo la Sicilia alla Cristianità, fino a promuoversi paladini della fede, prima di impegnarsi nella occupazione dell'intero Mezzogiorno peninsulare ed insulare.
Guaimaro, dunque, favorì l'ascesa di Rainulfo avvalendosene, come è ancora riferito da Amato da Montecassino: ... sans la volonté de li Normant né les choses soës poit deffendre né autres poit cestui Prince conquester..., per esser liberato dall'assedio e per averne sostegno nella guerra contro Greci e Saraceni finché, nel 1052, fu assassinato da una congiura amalfitana.

Nello spazio compreso fra il 1018 ed il 1039, così, il capostipite della dinastia aversana, a tutti gli effetti referente della combattiva famiglia, legò il proprio nome alle contrade campane attraverso un percorso tutto in salita verso il prestigio ed il potere. La partecipazione alla rivolta pugliese contro le oppressioni del fisco bizantino era stata una favorevole occasione per imporsi all'interno della più consolidata Aristocrazia terriera e per guadagnare il controllo di Siponto e di parte del Gargano.

Alla sua morte, gli successe il nipote Asclettino che non sopravvisse a lungo. L'eredità ricadde, allora, su Rainulfo Trincarotte che, nel 1048, uscì prematuramente di scena cedendo il consistente patrimonio familiare al fratello Riccardo.
La leggenda assume che, scomunicato da Gregorio VII dopo l'assedio di Salerno, costui fosse stato sollecitato da un'apparizione di san Gennaro a desistere dal proposito di conquista di Napoli. Solo la morte aveva, però, avuto ragione della ostinata prosecuzione delle operazioni militari: la vendetta del Santo impressionò il figlio Giordano che, sospeso l'assedio della città, consolidò la propria potenza nella piana di Alife. Lo emularono poi i successori Roberto, Giordano e Rainulfo II: l'irriducibile antagonista di Ruggero II d'Hauteville.

La campagna di conquista di Capua, avviata da Riccardo e Rainulfo, secondogenito di Asclettino, si concluse nel 1062. Nel 1065 i discendenti del primo gruppo insediatosi in Campania procedettero alla divisione dei loro domini: Giordano divenne Principe di Capua e Rainulfo I assunse la guida della Contea di Alife, trasmessa al figlio Roberto cui, nel 1105, successe Rainulfo II, sposo di Matilde, a sua volta sorella del Re di Sicilia Ruggero II.
Fu in questa fase che maturò l'aspra contrapposizione fra le due famiglie normanne: prevalsero i d'Hauteville che, abilissimi in diplomazia e in armi, conclusero importanti contratti matrimoniali e stabilirono solidi legami con le realtà politiche locali, poi brutalmente spazzandole via; furono amati dalle popolazioni pugliesi, che li investirono del ruolo di liberatori dalla tirannide bizantina; furono temuti dalla Chiesa, nei confronti della quale esibirono sempre una condotta sprezzante.

Gli eventi

Nel 1130, morto Onorio II, il Sacro Collegio diviso attribuì sedici voti ad Innocenzo II e venti as Anacleto II. Ruggero II di Sicilia, che aveva già dato sposa sua sorella Matilde a Rainulfo II, appoggiò costui ottenendone l'incoronazione a Re con una fastosa cerimonia celebrata nella cattedrale di Palermo il 25 dicembre del 1130, alla presenza del Legato Pontificio Conti.
Fu da quel momento che le sue ambizioni, travalicando ogni legame familiare, travolsero i Drengot, Signori della Campania sulla quale egli aspirava a porre un'ipoteca.

Rafforzata la posizione dell'antiPapa, il Sovrano gli garantì anche la fedeltà del cognato, che inviò a Roma col Principe Roberto di Capua. Se contro l'impegno a proteggerlo, Rainulfo ricevette le spoglie del Patrono di Alife san Sisto, di fatto era solo stato surrettiziamente allontanato: in sua assenza, Ruggero a sorpresa prima ne aggredì i territori di Mercogliano ed Avellino, infeudati al potente Riccardo e poi, assumendo che la propria sorella fosse maltrattata, ordinò il trasferimento di costei e del figlioletto in Sicilia.

La reazione fu prevedibilmente aspra: dopo aver invano tentato di recuperare la propria famiglia e le terre scippate al fratello, Rainulfo ricorse a Roberto di Capua e a Sergio di Napoli: il durissimo regolamento di conti si consumò a Montesarchio ove fu catturato Ruggero, figlio del Conte di Ariano, sodale del Re che, di rimando, assediò Nocera, ricadente sotto il controllo capuano e distrusse il ponte sul Sarno per eliminare ogni possibile marcia di avvicinamento dell'avversario. Il sabotaggio, tuttavia, si rivelò insufficiente ad arginare la collera dell'Aristocrazia campana che, riparata la via d'accesso alla cittadella, il 24 luglio del 1132, inflissero a Ruggero II una umiliante sconfitta a Scafati.

Il risultato era stato favorito da Bernardo di Clairvaux che, in appoggio ad Innocenzo II e contro Anacleto II ed il pagano Re di Sicilia, aveva composto un'ampia coalizione con Luigi VI di Francia, Enrico I d'Inghilterra e Lotario III, portatosi a Roma per l'incoronazione imperiale. A margine della disonorevole ritirata, l'Hauteville prese a ridisegnare la riscossa.

Nel frattempo Rainulfo ed il fratello si appellarono al legittimo Papa, all'Imperatore tedesco ed ai Pisani che accordarono a Roberto solo un migliaio di Cavalieri: pochi, per una resistenza durevole ed efficace; tuttavia, un imprevedibile colpo di scena mutò la situazione politica: nel 1135 si apprese notizia del decesso del Re siciliano. L'occasione fu còlta al volo da Drengot che, con venti navi pisane e massiccio mercenariato, si dispose all'aggressione del Sud peninsulare. Era pronto allo scontro campale quando, a sorpresa, nel mese di luglio di quell'anno, il mai morto Ruggero sbarcò a Salerno e puntò su Aversa, distruggendola e sottoponendo alla resa l'intera piana alifana.
Il suo ritorno nell'isola, questa volta, fu un trionfo: il nemico si era barricato a Napoli.

In effetti, di là dal recedere dai suoi pugnaci propositi di vendetta, Rainulfo era in cerca di nuove alleanze: le trovò ancora presso Pisa ma, soprattutto, presso Innocenzo, la cui amicizia scaturiva dall'irritazione per la condotta prepotente e per le frequenti scorrerie poste in essere dal d'Hauteville anche nei territori della Chiesa. Definito il patto di belligeranza, l'Imperatore mosse verso l'Abruzzo; si riunì ai contingenti di Rainulfo ed occupò le terre devastate dal ribelle, mentre le milizie pontificie prendevano Capua, Avellino e la Puglia, già infeudata a Rainulfo.

Per Ruggero II si trattò di un'inammissibile provocazione; ma, la schiacciante superiorità numerica degli avversari lo indusse ad una pace di circostanza: una ulteriore simulazione a margine della quale sferrò un pesante attacco a Telese ed una selvaggio assalto ad Alife.
La corale indignazione del compatto fronte antisiciliano fu assorbita dall'improvvisa morte di Rainulfo la cui scomparsa segnò il lento ed irreversibile declino dei valorosi pionieri del Sud peninsulare italiano, ormai riunito sotto l'energico polso de Re siculo che, ottenuta la definitiva legittimazione, si consegnò alla Storia come il più illuminato Sovrano del Medio Evo.

Il sipario era calato sulla famiglia proveniente dal Quarrel, malgrado l'ulteriore visita nella galleria dei suoi personaggi di maggior spicco non può prescindere dalle gesta di Andrea di Rupecanina, entrato in scena alla morte di Ruggero II, quando sul soglio di Pietro sedeva Adriano IV.

Il Sud normanno: Ruggero I

Fratello minore di Roberto il Guiscardo, che aveva riconosciuto la Chiesa Greca a condizione di subordinazione a quella di Roma, completata la conquista della Sicilia Ruggero I di Sicilia consolidò il processo di romanizzazione ecclesiale nominando Vescovi latini nelle Diocesi greche rese vacanti dalla morte dei titolari e promuovendo una notevole fioritura di monasteri, specie in Calabria: una opera di riordino politico-amministrativo e di latinizzazione delle circoscrizioni episcopali in seguito completata da Federico II. Nel 1088, conquistata anche la resistente Siracusa; assicuratosi il possesso delle isole di Gozo e Malta; strappate al debole nipote Ruggero Borsa la Puglia e la Calabria, dalla sua residenza di Mileto il Gran Conte attuò una politica di larghe intese con la Chiesa, riservando a sé il diritto di nomina dei Vescovi. Egli aveva riportato la Sicilia nell'orbita europea, con tutti i suoi complessi contenuti culturali: dalle monete coniate con iscrizioni cufiche, alla omogeneizzazione dei rapporti feudali sul concetto orientale del potere, rispetto al quale il Re non era primus inter pares, né espressione della volontà popolare, ma incarnazione divina.

Ormai dimestico con le usanze isolane, ai titoli nordici di Giustiziere e Siniscalco, egli affiancò quelli di Catapano, Logoteta e Stratego, caratterizzando il suo Regno di forte pregnanza orientale: la sua visione cesaropapista di estrazione bizantina, accentrata sul potere secolare, lo indusse ad esercitare nei confronti della Cristianità latina la pretesa di portare l'anello, il Pastorale e la Dalmatica, in una sintesi in sé del ruolo civile ed ecclesiale che indispose la Curia di Roma.
La frizione fu esasperata dall'incauta decisione di Urbano II di nominare Legato di Sicilia il Vescovo di Troia, senza il suo previo consenso: la durissima reazione di Ruggero, che fece arrestare il Prelato, fu per il Papa un monito circa le competenze, le prerogative e la sovranità territoriale.

Urbano II dovette riconsiderare la portata della forza del rivale, sicché nel 1098 aspirando ad incunearsi nell'isola, fortemente musulmana e carente di valide Istituzioni ecclesiali, gli conferì uno status equivalente a quello di Legato Apostolico: piuttosto che fronteggiarlo, meglio blandirlo. Peraltro, onde avvalersi della sua esperienza, circa le vicende politiche e religiose bizantine, ed in omaggio alla sua funzione di Sovrano di un Paese pur a forte pregnanza greca, il Primate venne fino a Terracina per riferirgli dei pacifici propositi dell'Imperatore Alessio Comneno, incline a ricomporre lo scisma che aveva diviso decenni avanti la Chiesa latina da quella greca.

L'incontro si saldò a quello del 2 marzo 1088, quando lo stesso Urbano aveva esperito un tentativo di conciliazione fra Ruggero Borsa e Boemondo, figli del Guiscardo, precipuamente mirando ad assicurarsi che il Gran Conte non avviasse rapporti con l'antiPapa e con l'Imperatore tedesco: in cambio avrebbe rinunciato ad ogni interferenza nella Chiesa di Sicilia; ma l'intervento, svoltosi alla vigilia della chiamata alle armi di Clermont, andò deluso. Ruggero era un pragmatico: una guerra santa avrebbe coalizzato Turchi ed Arabi, con il pericolo di contagiare la Sicilia e di mettere in crisi l'ordine conseguito. Per non compromettere l'equilibrio raggiunto nei rapporti interetnici; consolidare i suoi diritti su Napoli, sottratta al cognato Rainulfo Drengot, e recuperare la perdita di Amalfi, causata dalla defezione di Boemondo coinvolto nell'avventura crociata, egli accortamente ignorò i proclami e le lettere inviate dal Papa ai Principi cristiani. Di più: proprio mentre costoro, nel maggio del 1098, erano impegnati nell'assedio di Antiochia, si armò contro la tenace ribellione posta in essere dai Capuani contro Riccardo II: ne avrebbe avuto ragione proprio grazie al sostegno dei Saraceni isolani.

Nel successivo giugno, Ruggero incontrò ancora Urbano a Salerno: vi risolse il nodo della Legatia Apostolica, preambolo della bolla del 5 luglio 1098: ... Quia propter prudentiam tuam, Supernae Majestatis dignatio te multis triumphis et honoribus exaltavit et probitas tua in saracenorum finibus Ecclesiam Dei pluribus dilatavit... .
Si trattò di un riconoscimento ufficiale della crociata autonomamente condotta contro i Musulmani di Sicilia. Non a caso, ancora quel Papa: ... Dio ha chiamato dall'Occidente un cavaliere di nome Ruggero, uomo di grande saggezza e di enorme coraggio in guerra. Lo ha portato in quest'isola dove, dopo immense fatiche, numerosi combattimenti, la morte o lo spargimento di sangue di molti dei suoi soldati, egli ha liberato il paese dalla schiavitù dei pagani....

L'estraneità del Gran Conte alla sacra spedizione non impedì comunque ai Signori Vassalli di vestire i contrassegni crociati e di partire per l'Oriente: con Boemondo di Taranto, che aveva sposato Costanza, primogenita di Filippo I di Francia, partirono numerosi contingenti militari al servizio di Roberto de Sourdaval, originario del Cotentin; truppe di Ruggero de Barneville; milizie di Tancredi e Guglielmo d'Hauteville; il lucano Roberto d'Anza; Ermanno di Canne, figlio di Umfredo; Goffredo di Montescaglioso; Roberto di Campolieto; Umfredo, figlio del Conte pugliese Rodolfo; Goffredo di Rossignolo; Alberedo di Cagnano; Riccardo, figlio del Conte Rainulfo; Roberto, figlio di Gerardo di Buonalbergo; Boel di Chartres e vari Vescovi del Sud.

La prestigiosa armata all'inizio del novembre del 1096 salpò dai porti di Bari, Brindisi ed Otranto verso Valona e Durazzo, per puntare su Costantinopoli attraverso il vecchio percorso del Guiscardo.
Il 26 giugno 1097 l'intrepido Boemondo, Capo incontrastato dell'avanguardia crucisegnata, precedendo di parecchie misure Raimondo di Tolosa e Godefroy de Boillon, invase l'Anatolia. Il susseguirsi di successi militari gli consentì di costituire il primo degli Stati Cristiani di Siria: il Principato di Antiochia liberato dalla crudeltà di Kurbuqa. Rincalzato successivamente da Tancredi, egli brillò anche nella battaglia di Dorileo del 1° luglio del 1097, trasformandosi sul campo in una delle più attraenti e mitiche figure della crociata mentre, dopo la presa di Gerusalemme del 24 dicembre 1099, Tancredi veniva investito del Principato di Galilea: era sorto il Regno Crociato di Gerusalemme, prima Monarchia feudale europea fuori dall'Europa. Parallelamente veniva fondato il primo Impero Latino di Costantinopoli, che sarebbe durato fino al 1261.

L'Impero bizantino sarebbe stato restaurato dalla dinastia dei Paleologhi, ma non avrebbe mai acquistato unità: dall'Epiro al mar Nero, infatti, piccole famiglie patrizie greche avrebbero dominato Principati autonomi, mentre gli Occidentali si sarebbero spartiti le isole dell'Egeo.
Per il Gran Conte la spedizione in Outremer fu un evento ininfluente. Egli attese con cura al consolidamento del suo potere e all'integrazione dei suoi eterogenei sudditi fino alla morte, intervenuta il 22 giugno del 1101.

La ricostruzione delle sue virtù fu raccolta nell'incompleto De rebus Gestis Rogerii Siciliae Regis, scritto da Alessandro da Telese su commissione di Matilde, sorella del Re e moglie di Rainulfo d'Alife.
La Gran Contea di Sicilia fu ereditata da Ruggero II che, al di là della brutalità delle campagne di conquista, saldò il proprio destino a quello del Popolo mantenendo, anche a vantaggio dell'ordine pubblico interno, consuetudini arabe, greche e latine. La sua minorità fu amministrata dalla madre, Adelasia del Vasto che aprì la tradizione dei governi femminili di Sicilia.

Terza sposa di Ruggero I, ella proveniva da un complesso incrocio familiare: Aleramidi, Lancia, Del Carretto, Monferrato. A parte i fitti rapporti con i Ghibellini tedeschi, la potente casata aleramica esercitò grande peso nelle vicende italiane, soprattutto in virtù delle nozze di costei col Gran Conte: la stretta parentela con gli Hauteville si incrinò solo tre generazioni dopo la morte di Enrico, Conte di Paternò, quando le responsabilità nella congiura ordita contro Re Guglielmo I furono ascritte all'aleramico Ruggiero Sclavus, esiliato per fellonìa e punito con la confisca dei beni.

Il personaggio centrale alla grande famiglia fu, proprio, Adelasia: figlia del Marchese Manfredo Incisa del Vasto il quale nel 1079, sul letto di morte aveva affidato al fratello Anselmo figli e beni. Tuttavia, anche il tutore era presto deceduto e la cospicua eredità era finita nelle mani del terzogenito: l'avido Bonifazio Signore di Gravina. Per porre un'ipoteca su quei congrui beni, in dispregio delle interdizioni sancite dal Diritto Canonico e delle proteste di Gregorio VII e dei Vescovi di Asti, Torino ed Acqui, egli aveva sposato la vedova del germano. Defraudati e indifesi, gli eredi legittimi emigrarono in Sicilia, ove si avvalsero di contratti incrociati a carattere politico/ matrimoniale con gli Hauteville: Enrico, figlio unico di Manfredo, investito della Contea di Paternò ed infeudato del contado di Butera, prese in moglie Flandina, figlia di Ruggero I. Suo erede fu Simone Aleramico che, parallelamente alla prima crociata, fondò ad Est di Plutzia o Platea il primo Priorato Patriarcale siciliano del Santo Sepolcro di Gerusalemme; Goffredo e Giordano, figli del Gran Conte, avevano già sposato due sorelle di Enrico; infine, pur sessantenne, lo stesso Ruggero I, considerato dal Papa un campione di cristianità ed un affidabile alleato, aveva impalmato la giovanissima Adelasia. A quel tempo, egli era già due volte vedovo ed aveva avuto dieci figli dalle precedenti consorti. Ella lo rese padre ancora due volte e, col suo ampio ascendente, ne influenzò le scelte politiche.

Simone assunse la prestigiosa eredità sotto reggenza di Adelasia, a fortiori per minorità: fu un governo di brevissima durata poiché, di precaria salute, egli presto si spense. Il fatello Goffredo aveva perduto il diritto alla successione, in quanto costretto dalla lebbra al ritiro in un convento. Fra il 1102 e l'1105 mancarono anche Giordano ed un altro giovane Simone d'Hauteville, mentre un secondo Goffredo, forse illegittimo, fu escluso da ogni rivendicazione ereditaria.
Era il turno di Ruggero II: l'autore del rilancio della dinastia.
L'Aleramica attese alla sua educazione ed al governo dell'isola con straordinario rigore: scaltra, ambiziosa, capace, lucida e di temperamento generoso ed ardito per l'epoca, come Goffredo Malaterra la descrisse, a fronte della rivolta di Patti, ove un gruppo di Baroni ribelli si era asserragliato nel castello di Focerò, dette prova di inaspettata intransigenza reagendo con una spietata repressione. Nel Consiglio di Corona, chiamò suo fratello Enrico e gli ratificò l'investitura delle due importanti Contee di Butera e Paternò, già in dote a Flandina fin dall'epoca delle nozze; ma molti altri uomini le furono Consiglieri: fra essi, per due lustri, diviso fra il Gabinetto politico e l'alcova, il Duca Roberto di Borgogna. Quando, però, costui sposò un'altra figlia di Ruggero I, esplosero intrighi degenerati nel suo avvelenamento.

La sua assenza fu rimpiazzata da altri due favoriti: prima il ricco terriero Roberto d'Avenel; poi Cristodulo o Cristoforo, che nel 1094 aveva avuto da Ruggero il titolo di Protonobilissimo. Si vuole che egli fosse l'arabo Abd-er-Rahmân-en-Nasrâni. Di fatto, forte di un rispettabile passato e di larga autorità riconosciutagli da Ruggero quando era stato designato uomo/ponte fra gli interessi normanni e le popolazioni greche della Calabria e Sicilia orientale, egli guidò la Gran Contessa nella gestione finanziaria e nella costruzione di chiese e monasteri, concorrendo agli equilibri fra le varie forze etniche e religiose presenti nello Stato.

In quegli anni, Adelasia rafforzò l'edificio istituzionale ponendo evidente attenzione alla giustizia, all'ordine ed alla pace: seguendo le orme del marito, elesse Messina a sede permanente di Corte e fissò la capitale a Palermo, favorendovi una massiccia immigrazione lombarda.

Morto, intanto, il figlio di Roberto il Guiscardo, il minorenne Ruggero II ereditò anche la Puglia, consolidando quella tradizione dinastica che trasformò in Regno di Siciliae et Italiae, con una estensione dal Tronto sull'Adriatico, al Garigliano sul Tirreno: confini restati immutati per sette secoli. La Gran Contessa rappresentò il più sostanziale elemento d'unione fra Ruggero I e Ruggero II: tollerante in materia religiosa, privilegiò i Musulmani rendendoli lealisti verso la Corona e manifestò larga attenzione anche nei confronti della Chiesa Greca, in particolare del Monachesimo basiliano. Meno solido fu, invece, il legame con il Clero latino, malgrado ella lo stringesse attorno alla Corte per arginare le turbolenze delle Baronie proclivi ad atti di sistematica insubordinazione.

In definitiva, Adelasia fu portatrice di un'azione riformatrice e vivificatrice tale da rimuovere lo spartiacque che ancora separava le genti greche del Sud dai potenti Normanni.
Saldi vincoli personali più che istituzionali, ella mantenne anche con il Papato: un mese dopo la vedovanza, Pasquale II era venuto personalmente ad esprimerle la sua costernazione, forse in memoria dell'aiuto anche economico fornitogli da Ruggero contro l'antiPapa Guiberto e, in ogni caso, per rafforzare un rapporto che gli consentisse di incunearsi meglio nell'isola.
Sul finire del 1112, quando il figlio assunse le responsabilità del governo, la quarantenne Adelasia fu gratificata dalla proposta matrimoniale del Re di Gerusalemme Baldovino I di Fiandra, fratello di Godefroy de Bouillon: attratto più dalla consistenza patrimoniale che dalla avvenenza della vedova, egli si impegnava alla clausola di cedere il proprio trono al Conte di Sicilia e Calabria ove nessuna nascita avesse allietato quelle nozze.
La conclamata bigamia del Sovrano, però, umiliò la sposa che, a fronte della pronunciata nullità del suo legame nuziale, tornò in Sicilia mentre il suo ripudio fomentava avversione e risentimento in Ruggero II, ferito nell'amore filiale e nell'orgoglio di Principe.

Adelasia non sopravvise a lungo all'affronto: ritiratasi a Patti e deturpata dalla lebbra, rivolse l'ultimo segmento della sua infelice esistenza all'assistenza degli indigenti. La sua scomparsa indusse nel figlio un atteggiamento di ferma ostilità nei confronti delle questioni orientali e nei confronti della Chiesa, cui non risparmiò attacchi di natura politica: Bernardo di Clairvaux lo definì Tyrannus Siciliae e, non a caso, egli s'incuneò nella seconda crociata al solo scopo di ipotecare politicamente Corfù e di enfatizzare il ruolo di Sovrano più apprezzato e temuto del Mediterraneo.
Ottimo conoscitore dell'arabo e del greco, sull'esempio del padre che già nel 1090 aveva reso tributaria l'isola di Malta, nel 1116 assalì la Tunisia e grazie alla nozze materne pose un'ipoteca sul trono di Gerusalemme. Alla morte di lei, riordinato l'enorme edificio politico, prese ad instaurare una Monarchia semidivina nella quale coinvolse Giorgio d'Antiochia, col ruolo di Primo Ministro o Gran Vizir. Costui fornì rilevante contributo all'espansione normanna ed alla politica estera della Corona conquistando Sfax, Susa, Tripoli, Mehedia e tutto il territorio fino a Kairouan.

Nel 1127, morto Guglielmo, figlio di Ruggero Borsa, il d'Hauteville puntò all'unificazione del Sud italiano prendendo possesso di Salerno ed occupando anche le terre di cui Boemondo II era Signore feudale della Chiesa: l'iniziativa, che urtò la suscettibilità di Onorio II, compattò l'opposizione di vari Nobili fra cui Rainulfo d'Alife e Roberto di Capua. Gli insorti si riunirono a Troia ed il Papa, intervenuto nella crisi dinastica, anatemizzò il Re sfidandolo in battaglia; ma la morte di Boemondo, a tre giorni da quella di Guglielmo, sedò le tensioni. Il Primate accettò la pace e revocò la scomunica con il Trattato di Benevento dell'agosto 1128 mutando lo scenario politico del territorio continentale, che fu diviso in due enormi Province: Ducatus Apuliae e Principatus Capuae. All'inizio dell'anno successivo, Messina fu eletta Caput Regni e le fu rilasciato il Consolato del Mare, la Zecca, varie franchigie, esenzioni ed immunità.

Morto anche Onorio II ed apertasi una lacerazione scismatica nella Chiesa, Ruggero si schierò contro l'elezione del nuovo Primate Innocenzo II e parteggiò per l'antiPapa Anacleto II, al secolo Pietro Pierleoni, sposandone la sorella e ricevendone in cambio, con la Bolla del 26 marzo 1130, il conferimento della corona della quale fu riconosciuta e sancita l'ereditarietà. Nello stesso anno, formalmente incoronato, assegnò estrazione divina alla sua autorità, com'è testimoniato da un mosaico nel quale indossa la tiara greca ricevendola da Cristo e non dal Pontefice, a conferma del concetto della laesa majestatis riproposto con l'attacco dell'Archimandrita basiliano Neilos Doxopatrios alla asserita superiorità dei Pontefici Romani. Ancora in quel 1130, la conflittualità fra rivali alla successione pietrina intervenne sulle vicende politiche internazionali: a capo della fazione favorevole ad Innocenzo si pose Rainulfo di Alife, cognato di Ruggero II; con Anacleto si schierò costui che, fra il 1134 ed il 1137, malgrado le dure sconfitte inflittegli dal Drengot; malgrado la marcia di Lotario sui territori del Regno e l'occupazione di Siponto e Monte sant'Angelo; malgrado la violenta rivolta antinormanna di Napoli, riuscì ad imporre la propria supremazia anche nell'Italia peninsulare conquistando Capua, Aversa e Alife: mentre elevava i figli Anfuso a Principe di Capua; Ruggero a Duca di Puglia e Tancredi a Principe di Taranto, la morte fulminò il minaccioso Imperatore e, presto, lo stesso Anacleto.

Nel sud sconvolto da scontri di fazioni, il d'Hauteville riprese il controllo di Avellino, Nocera e Capua, benché il cognato restasse la sua spina nel fianco: alla vigilia dello scontro decisivo Innocenzo, legittimamente entrato in Laterano, pronunciò la scomunica in suo danno, ma presto la morte di Rainulfo, privandolo di un formidabile alleato, lo costrinse a riconoscergli il titolo di Re: il 27 luglio del 1139 a Mignano Americo, Cancelliere di Innocenzo II, definì Ruggero ... nostro carissimo figlio, illustre e glorioso re di Sicilia, la cui elezione deve considerarsi divina. Infatti è proprio alla Sposa di Cristo, alla Chiesa Romana Nostra Madre Santa e Apostolica che bisogna elevare quanti si distinguono per la loro prudenza, la loro giustizia e i loro alti meriti, ovvero quelli che hanno realizzato grandi cose e ne faranno altre ancora più grandi...

In quella stessa sede, alla presenza dei figli, egli giurò fedeltà alla Chiesa spegnendo ogni residuo focolaio di resistenza isolana: la Sicilia era divenuta una potenza economica europea.
La sua floridità era di gran lunga migliorata con l'arte orafa e la gioielleria, basata sulla lavorazione del corallo; era stata dotata di imponenti macchinari per irrigare gli sterminati frutteti e giardini; era, in definitiva, una terra felice nella quale il pur annoso scontro fra Papa ed antiPapa non aveva condizionato la crescita del benessere: l'isola era restata sostanzialmente estranea ai fermenti continentali, malgrado Ruggero fosse stato coinvolto da lunghe ed incerte vicende sul continente. A pace conclusa, egli riprese la fastosa vita di Corte esibendo il corretto uso del francese, del greco e dell'arabo e l'uso del kamelaukion, alla maniera degli Imperatori bizantini. Il celebre mantello di seta rossa, raffigurante due leoni attorno ad una palma, nell'atto di atterrare due dromedari, era ampio tre metri; decorato con scritte d'oro in caratteri cufici; ornato da perle e filigrana; fermato da una preziosissima spilla. Avvezzo all'uso di ornamenti papali, sandali rossi, mitra, tunica e dalmatica che evidenziassero la sua assoluta potenza, il d'Hauteville era una leggenda vivente: aveva fronteggiato ogni sistematico tentativo di aggressione posto in essere da Lotario ed aveva osato prendere prigioniero il Papa, colpevole d'avere contrastato la sua autorità. La cattività era durata solo tre giorni: un tempo sufficiente perché egli ottenesse non solo il Regno di Sicilia, il Ducato di Puglia ed il Principato di Capua, ponendo così definitivamente fine alla locale signoria dei Drengot, ma anche e soprattutto perché gli fosse riconosciuto quel diritto di Legatia Apostolica in forza del quale, nell'assise convocata ad Ariano Irpino nel settembre del 1140, potè definitivamente affermare la supremazia e l'autonomia del potere regio.
L'atto di pirateria politica e militare, di stretta tradizione normanna, aveva esaltato la sua audacia; enfatizzato il prestigio del suo Regno; consolidato la sua attività politica, consegnandolo alla Storia come il più grande Re dell'epoca.

Oltre ad essere un coraggioso Condottiero, egli fu riformatore e legislatore e, per primo, legiferando attraverso una sintesi del Diritto Romano e del Diritto Germanico, introdusse nel reato la distinzione del dolo dalla colpa suddividendo le pene in pecuniarie, corporali e privative della libertà, sulla base di ampie tendenze garantiste mirate ad accertare avanti a tutto l'imparzialità del Giudicante. A testimonianza della sua notevole cultura legislativa restano le Assise di Ariano, raccolte in quarantaquattro paragrafi. A parte le note introduttive, esse constano di dodici capitoli riferiti ai rapporti con la Chiesa, tre relativi a norme di Diritto Pubblico nei suoi rapporti con la Monarchia, sette dedicati solo al Diritto Pubblico, sette riguardanti i contratti matrimoniali, dodici vertenti su norme di carattere penale.

Firmando nel nome della Santissima ed indivisibile Trinità.... protettore e scudo dei cristiani, erede e figlio del conte Ruggero il Magnifico... e mantenendo gli usi locali con al di sopra la propria autorità, istituì un capillare corpo di Funzionari, Giustizieri, Camerlenghi e Baiuli subordinati al potere centrale non come Vassalli ma come dipendenti con anche, fra le altre, la mansione di compilazione e custodia dei registri fondiari, così precorrendo la moderna burocrazia. Il suo nome restò legato anche alla introduzione delle dogane: Diwan at-tahqiq al mà mur, ovvero Duana de Secretis, ovvero Curia Regis. Sostanzialmente, l'isola fondò sull'armonica fusione di elementi arabi, nell'organizzazione amministrativa; bizantini in quella militare; normanni in quella culturale.

Protagonista di una intensa vita di Corte connotata da fasto orientaleggiante, Ruggero II condusse la Sicilia ad uno straordinario benessere, attraverso anche quella libertà di culto che fece del suo Stato un autentico modello di coesistenza etnica. La sua passione furono, tuttavia, i castelli la cui costruzioni articolò in tre gruppi: rurali, urbani, costieri con uguali mansioni agli occupanti. I primi, a titolo feudale, erano nelle mani dei Milites che dai terreni circostanti traevano fonte di sostentamento, di contro all'impegno della difesa militare del territorio; i secondi erano, di fatto, dimore dei Signori e centri amministrativi dei feudi; i terzi avevano la funzione di sorveglianza delle coste. Alle responsabilità politiche egli chiamò presto i figli: Ruggero, Anfuso e Tancredi, investendo quest'ultimo del comando supremo dell'esercito. Alla sua precoce morte, nel 1138, gli subentrò il figlio omonimo che, nato more danico, fu Re di Sicilia per quattro anni.

Il d'Hauteville ratificò le norme del nuovo Stato a Silva Marca, attraverso allusioni liturgiche e linguaggio proprio del Diritto Romano: in questa località, con accorta lungimiranza politica, nel 1142 tenne un'Assemblea Generale sottesa al riordino dell'edificio amministrativo del Regno. Vi partecipò con Anfuso, assieme a Conti, Baroni e varia Nobiltà, anche allo scopo di organizzarvi una leva militare straordinaria in difesa del Sud, minacciato da Corrado III e da Manuele Comneno.
L'assise si pose come premessa alla formazione della Magna expeditio, operativa fra il 1150 ed il 1168 e consistente di un sostanziale accentramento dei poteri al Re: Reductio ad unum. Ancora a Silva Marca, egli varò la definizione di nuove Contee, attuando una riforma mirata ad una nuova e più efficace gestione dell'esercito, a garanzia della sicurezza e della fedeltà alla Corona. Si trattava di una sorta di integrazione del De Nova Militia e delle rigorose disposizioni di reclutamento dei Cavalieri; ma il pezzo forte del convegno stette nella selezione di una complessa rete di parentele ed amicizie di Corte da investire nel controllo e nella sicurezza dello Stato: Contea di Alba a Berardus, la cui figlia aveva sposato Andrea di Rupecanina, nipote di Rainulfo; Contea Alesina a Goffredo de Ollia, membro della famiglia dei Grandmesnil, un cui esponente, Guglielmo, aveva sposato Mabilia, figlia di Roberto il Guiscardo; Contea Alifia a Malgerius; Contea d'Andria a Riccardo de Lingévres, eroicamente propostosi nella campagna di Tripoli; Contea d'Aprutium a Roberto dei Conti di Aprutio, figlio della normanna Rogata, a sua volta sposa di Attone IV d'Abruzzo e figlia di Goffredo d'Altavilla; Contea di Avellinum a Riccardo de Aquila marito di Magalda, a sua volta figlia di Rodolfo Maccabeo e di Emma, sorella di Ruggero; Contea di Balbanum a Filippo di Balvano, nipote di Boemondo e discendente del Guiscardo; Contea di Conza a Gionata, figlio del Conte Riccardo discendente degli Altavilla; Contea di Caserta a Roberto de Lauro, imparentato con Sighelgaita; Contea di Celanum a Rainaldo, fratello di Berardus di Alba; Contea di Cupersanum a Roberto de Basunvilla, cognato di Ruggero; Contea di Fondi a Goffredo de Aquila, figlio di Riccardo Duca di Gaeta e Conte di Sessa; Contea di Gravina a Gilberto, cugino della Regina Margherita; Contea di Licium a Tancredi d'Altavilla; Contea di Loretum a Rambot, fratello di Berardo Conte di Chieti e padre di Joczolinus, marito di Adelicia, figlia di Ruggero; Contea di Loritellum a Roberto de Basunvilla, già Conte di Conversano; Contea di Manopellum a Boemondo de Tarsia, parente di Boemondo di Taranto; Contea di Mons Caveosus a Goffredo di Lecce; Contea di Mulisium ad Ugo II, già Conte di Boiano e marito di Adelaide, figlia naturale dello stesso Sovrano Ruggero; Contea di Sangrus a Todino, figlio di Manerio Conte di Trivento, imparentato al Conte Tassone, consanguineo del Re; Contea di Bonusalbergus a Roberto de Medania, figlio di Goffredo e di Sighelgarda, della famiglia della moglie del Guiscardo.

A margine dell'Assemblea di Silva Marca, si aprirono problemi di successione: la morte di Anfuso nel 1144 e quella di Ruggero nel 1148, indussero Ruggero ad eleggere Principe di Taranto l'illegittimo Simone mentre a Guglielmo, ultimo superstite dei legittimi, assegnò il Principato di Capua, il Ducato di Napoli e il Ducato di Puglia.
All'epoca, il feudo italiano, iure francorum, era indivisibile e passava solo ai primogeniti ma, in caso di estinzione della linea maschile, veniva trasmesso alle primogenite. Con la Novella Greca promulgata in Calabria nel 1150, egli modificò il Diritto Feudale rendendo il feudo divisibile e decidendo che il mos francorum riguardasse solo i feuda dignitatum.

Attento amministratore, abile diplomatico, legislatore equilibrato ed acuto, sensibile mecenate, Ruggero II privilegiò gli interessi popolari, consolidando le attività di produzione e scambio dei prodotti, in specie nel settore della seta e delle spezie; ma, a parte le innovazioni economiche, la sua grandiosità restò per secoli confermata dal fasto di monumenti quali la chiesa della Martorana in Palermo, lo splendido campanile costruito da Noslo di Remeiro a Melfi ed il duomo di Cefalù, sul cui altare campeggia il Cristo Pantocratore.

Culturalmente influenzato dai bizantini, divenne loro ostile quando Manuele I gli respinse la proposta di sposare uno dei figli ad una Principessa orientale: tale ferita al suo orgoglio, legata al vecchio rancore per il rifiuto degli Imperatori Giovanni e Manuele Comneno nel riconoscergli il rango di Basileus, fu vendicata con la devastazione delle coste greche da parte dell'Ammiraglio reale Cristodulo.
Il 26 febbraio del 1154 il Rex Siciliae et Apuliae, dopo aver associato al trono il figlio Guglielmo, morì lasciando ad imperitura testimonianza della sua grandezza, vari ed autentici capolavori di architettura; una raccolta di Leggi dedotte dal meglio delle tradizioni etniche dei sudditi e la profonda gratitudine di un Popolo certamente primo nel Mediterraneo per civiltà, cultura, importanza commerciale e prestigio economico.

Con l'uomo che aveva assoggettato genti latine, greche, longobarde, ebraiche ed arabe fondendole in un'unica stirpe, se ne andò il primo Re medievale svincolato da qualsiasi giurisdizione; un Re saggio e sganciato dalle invadenze della Chiesa; un Re consapevole della propria autonomia al punto da simboleggiarla con la scelta ricorrente del porfido o marmo porporino, tradizionalmente utilizzato solo dai Vicari di Cristo e dagli Imperatori Romani; un Re dalla versatile cultura, provata anche dalle traduzioni di Platone, di Euclide e dell'Almagesto di Tolomeo e dalla introduzione delle leggende del ciclo carolingio e bretone in Sicilia; un Re che forse fu, se non il più grande, fra i più grandi personaggi del Medio Evo; un Re capace, con fredda autorevolezza, di coprire le voci di tutti i suoi potentissimi nemici: il Papa, l'Imperatore tedesco, il Basileus di Bisanzio; un Re che più probabilmente fu, nei fatti, l'Imperatore di un Impero nel quale, simbiotici, convissero Siciliani, Bizantini, Ebrei e Musulmani, avallando la convinzione di Pietro da Eboli di un'isola frontiera d'Oriente e d'Occidente.

Così lo Storico Ibn Al Athir, a proposito del d'Hauteville: ... Ruggero il normanno è il re di tutti, in quanto amava e si impegnava a migliorare lo status dei suoi sudditi e in particolare rispettava i Musulmani e intrateneva con loro eccellenti rapporti... e in pari misura i Musulmani amavano quel sovrano...

La sua Monarchia si concluse con Guglielmo II e, ancora al suo tramonto, era forte di una estensione dal Garigliano e dal Tronto fino alla Tunisia, compresa la libica Tripoli, centro di riferimento dei traffici dell'oro e di controllo delle rotte mercantili catalane, genovesi e pisane.
A Ruggero II, successe il figlio di primo letto Guglielmo I il Malo.
Bello, forte, coraggioso e coltissimo, fin dall'8 aprile 1151 era stato unto Principe di Capua e designato erede. Sposato a Margherita di Navarra, egli assunse la guida di un Regno potente ed enorme, ma esposto a gravi pericoli interni. Quarto legittimo rampollo di Ruggero, sopravvissuto ai tre germani maggiori, egli entrò sulla scena politica nel pieno della opposizione feudale e delle tensioni etniche. Le ribellioni periodiche delle Baronie; i fermenti di città private di privilegi; la sistematica doppiezza del Papato che, nella persona di Adriano IV, rifiutava di riconoscergli l'autorità regia vantando diritti feudali sull'isola; le mire egemoni ed espansionistiche dell' Imperatore d'Oriente; l'imperialismo arrogante di Federico I di Hohenstaufen, che già due volte aveva minacciato d'invadere il Sud; l'assassinio di Filippo l'Eunuco, Comandante della Flotta reale, sospettato di tradimento; la scomunica irrogatagli dal Papa indussero il trentaquattrenne Guglielmo ad avvalersi della collaborazione del Grande Ammiraglio Maione di Bari e a marciare sul continente, fino al Molise ed all'Abruzzo, per arginarvi la ribellione dei Feudatari: a Benevento, finalmente, grazie proprio alle mediazioni dell'esperto Consigliere, si giunse ad un trattato di pace con Adriano IV il 18 giugno del 1156. Ma nell'isola, malgrado le accorte manovre diplomatiche, il malessere s'inasprì ancora a causa di una gravissima vicenda di politica interna quando proprio il Plenipotenziario Maione avviò un clima di congiure che armò, il 10 novembre del 1160, la mano di suo genero Matteo Bonello.
Non si trattò, come volevavi sostenere, di un atto di difesa del Te, ma di un intrigo sentimentale: innamoratosi di Clementia, ripudiata da Ugo II, e contrastato dal suocero, che aveva tentato di stoncare la tresca, Bonello si era spinto all'omicidio per proteggere la propria vicenda privata. Anzi: egli stesso preparava una congiura contro Guglielmo, avvalendosi della complicità di Simone, figlio naturale di Ruggero II; di Tancredi, figlio di Ruggero di Puglia, e del Conte di Avellino Ruggero de Aquila. Il progetto di costoro, che aspiravano a detronizzare il Re, accusato di tirannia, per portarne al trono il figlio novenne Ruggero III, fu sventato a sorpresa da un iscuro personaggio: tal Riccardo Mandra, che sedò la rivolta entrando di prepotenza nella scena politica. Di fatto, denunciato il tentato regicidio, egli ottenne la gratitudine di Guglielmo che lo designò Custode della spada del Re: carica equivalente a Ministro della Guerra, prima di istituire il Consiglio della Corona: una triade di affidabili familiares regis.

Nel 1162, alla testa di un imponente esercito Guglielmo entrò in Calabria e, stroncato ogni focolaio di ribellione, restaurò l'ordine nel Regno; poi, soverchiata la coalizione di Bizantini, Baronie ribelli, Mercenari genovesi e Papato, costrinse Adriano a cedergli l'investitura di Benevento; infine, combattuti anche i Musulmani d'Africa con avversa fortuna, fino a prendere parte delle conquiste paterne, e raggiunta un'intesa con Manuele Comneno, sostenne l'elezione di Alessandro III al soglio pontificio sostenendolo contro il Barbarossa. Tuttavia, nel Sud dilagò un clima di aperta ostilità alla sua politica: tale da indurlo a ritirarsi nel castello della Ziza, ove si spense il 7 maggio 1166 lasciando erede il figlio tredicenne Guglielmo II il Buono, sotto la Reggenza della madre Margherita di Navarra.

Il primo atto politico della Regina fu l'emanazione di un'amnistia generale; ma il provvedimento aggravò il malessere dell'isola, attanagliata da una tale morsa di problemi sociali da spingerla a chiamare nel Consiglio di Corona il musulmano Pietro Gaito, il Giurista Matteo d'Ajello e vari elementi inglesi, parte dei quali già fiduciari del marito: Odo di Bayeux, fratello di Guglielmo il Conquistatore; Thomas Brown; Giovanni Lincoln; Riccardo Palmer; il Vescovo di Palermo Walter of the Mill, oto come Guglielmo Offamilio. Per fronteggiare, poi, le Baronie in rivolta, designò Primo Minitro il cugino Stefano Le Perche e chiamò a Corte il Teologo Pietro di Blois, tutore dell'erede.
L'aperta tendenza esterofila, interpretata dagli Isolani come uno sprezzo per il Notabilato locale, scatenò una reazione popolare di Greci e Cattolici tanto dura da indurre il Le Perche alla fuga a Gerusalemme e Pietro di Blois al ritorno in Francia. Il fermento era esasperato: i ribelli accusavano la Reggente di avere di fatto favorito stranieri anche di basse origini e la contrapposizione fu fomentata da Gilberto di Gravina che, defraudato dalla mancata nomina a membro del Consiglio di Corona, capeggiò l'ammutinamento dell'Aristocrazia. Per contro Pietro Gaito, fiancheggiato da Riccardo Mandra, ora Gran Connestabile, si pose alla testa del partito militare esaltando la sollevazione anche degli Uffici di Corte: Mandra, uomo dal vago passato e privo di credenziali, disponeva dei soli favori personali di Margherita.

A fronte di questi rilievi, il 13 luglio del 1166 ella lo allontanò dall'isola infeudandolo della Contea del Molise allargata alla Terra di Lavoro, mentre Gaito impaurito dalla violenta reazione degli sgherri di Gilberto di Gravina, riparava in Africa. Di fatto, però, Mandra non lasciò l'isola ma assunse pienezza di poteri di governo, sicché la Sovrana si trovò a dover fronteggiare Enrico di Montescaglioso, vigoroso interprete della indignazione generale per il ruolo politico accordato in particolare a quel Luogotenente reale sul quale pesavano: il sospetto di tradimento; l'ipotesi di partecipazione ad un complotto contro la vita del Cancelliere Le Perche; l'aperta accusa di malversazione ed usurpazione dei beni della Corona. Boemondo di Tarsia si offrì invano di provarne la colpevolezza, attraverso il duello giudiziario: lo scandalo si attenuò solo dopo un processo rapido e forzato. Il verdetto di colpevolezza emesso nel 1167 sancì l'arresto ed il confino del personaggio che, trasferitosi in Molise, isolato e delegittimato vi si spense lasciando erede il figlio Ruggero.

Un clima di inquietudini e di intrighi aveva, dunque, fatto da cornice alla maggiore età di Guglielmo II, asceso al trono nel 1171. Uomo di pace, assunta la protezione degli Arabi contro la cristianizzazione imposta da Cistercensi e Clunyacensi, egli guidò la Sicilia verso un rinnovato benessere e ad una sicurezza socio-economica forte di iniziative di ampia portata: fece liberare i prigionieri politici; emanò un'amnistia generale che consentisse agli esuli il rientro in patria; moderò i tributi; regolò i diritti dei Feudatari e patrocinò la costruzione dell'abbazia benedettina di Monreale. Il 2 febbraio 1177, il giovane Re sposò Giovanna, figlia di Enrico III d'Inghilterra, e nella occasione, costituì in dotazione per tutte le Regine di Sicilia l'Honor Montis S. Angeli, comprensivo delle città di Siponto, Vieste e Montesantangelo.
Il matrimonio mirava a rilanciare il ruolo economico e politico del Regno in Europa ed intendeva rafforzare l'alleanza col Papa e con la Lega Lombarda, per arginare le pretese di Federico I di Hohenstaufen, contro il quale si schierarono anche Veneti e Genovesi, interessati a colpire l'Impero d'Oriente. Ma un nuovo evento intervenne su tali accorte manovre diplomatiche: ritagliatosi uno spazio all'interno dell'assise internazionale di Venezia, nel 1177, Guglielmo ottenne proprio dal Barbarossa una tregua di quindici anni: era la premessa a quell'intesa nuziale concordata fra Enrico VI di Germania e Costanza d'Altavilla: unione avversata con forza dal Papa, convinto d'essere il supremo Signore feudale di un Regno minacciato dal rischio di finire nelle mani degli invisi Tedeschi. L'invasione di Durazzo e l'occupazione di Tessalonica furono i primi risultati del progetto d'espansione del Sovrano di Sicilia; tuttavia, la marcia programmata contro Costantinopoli fu stroncata a Serre con l'ambizioso progetto di sottrarre Gerusalemme al Saladino: appena trentaseienne, Guglielmo si spense lasciando una Sicilia ricca e prospera.

La sua morte rilanciò lo spinoso problema successorio maturato in esito alle censurate nozze: nel Regno, un partito ostile ai Tedeschi ed incoraggiato dalle più alte gerarchie ecclesiali locali, sostenne il diritto ereditario di Tancredi di Lecce, figlio illegittimo di Ruggero Duca di Puglia, a sua volta figlio illegittimo di Ruggero II. Costui fu incoronato a Palermo nel 1190, con l'aperto appoggio del Papa, della Borghesia municipale e della Cancelleria reale. L'iniziativa suscitò sdegno e collera non solo in Enrico VI, già legittimato Imperatore da Celestino III, ma anche in Riccardo I d'Inghilterra che, quale germano della Regina Giovanna, avocato a sé il diritto di successione al trono siculo, durante la missione di Crociato occupò Messina. Tancredi, che aveva fatto rapire la Sovrana vedova, se ne liberò liberandola e pagando l'imponente riscatto di quarantamila once d'oro. Contemporaneamente il tentativo di invadere il Sud da parte d'Enrico VI, intenzionato a far valere i suoi diritti dotali, si risolse nel fallimento a causa di un contagio di peste sviluppatosi nelle fila dell'esercito tedesco.
Nel 1192, il coriaceo Imperatore incaricò Bertoldo di Kunsberg di attaccare gli insurrezionisti guidati da Mandra in Molise. Solo nel febbraio del 1193, con la resa di Venafro, l'intera regione cadde in mano tedesca.

Garantita al figlio la successione anticipata, intanto, Tancredi ne progettò le nozze con Irene, figlia di Isacco Angelo, per assicurarsi una solida alleanza militare che lo affrancasse dalla incombente minaccia teutonica. Contestualmente, arrestò l'Imperatrice Costanza relegandola a Salerno. Ma un'altra crepa s'era aperta nel Regno: un ulteriore, aspro fronte interno di lotta, scatenatosi fin dalla morte di Guglielmo, aveva ridestato l'odio fra Cristiani di Palermo e Musulmani. Si trattò di una carneficina cui si sottrassero quanti, riusciti a sfuggire alla Multa Strage, trovarono riparo ad montana, ovvero verso la qila del territorio di Monreale. La situazione si era aggravata proprio con l'insediamento di Tancredi: i Gesta Regis Henrici e Ruggero di Hoveden assumono che l'arretramento dei Saraceni verso le zone interne fosse stato causato dall'ostinato rifiuto a servire regi Tancredo, malgrado la fedeltà successivamente manifestata alla Regina Sibilla.

Quel clima di tensioni ed incertezze pervase l'isola fino al 1194, anno in cui l'usurpatore morì lasciando erede il figlio treenne Guglielmo III. Il territorio fu, allora, squassato dal fronte di guerra apertosi fra Matteo d'Ajello, che aveva contrastato le nozze di Costanza ed Enrico, e l'Offamilio, che n'era stato il fautore. La contrapposizione coinvolse sostenitori degli Svevi, Cristiani e Musulmani, con complessivo indebolimento del governo amministrato dalla Sovrana vedova.

All'epoca, i rapporti fra la Curia di Celestino III e Costanza d'Altavilla erano tesissimi, com'è provato dalla lettera del 3 ottobre 1195, con la quale ella elevava una formale protesta per la arbitraria nomina papale dell'Abate di san Giovanni degli Eremiti a Palermo. L'Imperatrice vi presentava il Prelato come un blasfemo traditore della Corona ed avocava a sè il diritto di scelta su quel monastero fondato da Ruggero II. L'episodio appesantì la più generale tensione quando Enrico VI, figlio del Barbarossa e di Beatrice di Borgogna; Re dei Romani dal 1168; sposo della erede legittima al trono di Sicilia; incoronato Imperatore da Celestino III, si insediò nel Sud peninsulare per rivendicare i suoi titoli con la forza delle armi. Per nulla condizionato dalla coalizione formata da Tancredi, Riccardo d'Inghilterra, Ottone di Brunswick e Urbano II, egli invase lo Stato della Chiesa facendo sapere che si sarebbe ritirato solo quando e se la Curia romana gli avesse riconosciuto la titolarità del Regno. Nel frattempo, attese alla ridistribuzione degli incarichi di potere e, dichiarati decaduti i diritti del giovane Ruggero Mandra nella regione cerniera del Molise, ne affidò la Signoria a Corrado di Lutzinhart.
L'improvvisa morte di costui, però, fece spazio al Siniscalco Markward Von Anweiler, deciso ad offrire lealtà armata all'Imperatore cui la fortuna d'improvviso arrise attraverso la morte di Tancredi ed attraverso la cattura di Riccardo d'Inghilterra, arrestato da Leopoldo d'Austria; deportato a Trifels e riscattato dalla madre Eleonora d'Aquitania per la cifra di centomila marchi. Invasa la Puglia e la Sicilia, col favore dei Baroni ribelli, Enrico marciò su Palermo, deciso ad esigere tutti i diritti dinastici. Affermata la propria autorità nell'isola, raggiunse un'intesa con la Reggente Sibilla: se ella avesse rinunciato ad ogni eventuale pretesa sul Regno e si fosse impegnata al giuramento di fedeltà, il figlio Guglielmo III avrebbe mantenuto la Signoria della paterna Contea di Lecce e del Principato di Taranto. L'accordo gli consentì di essere incoronato Re di Sicilia nel duomo palermitano e di emanare, nella stessa settimana natalizia, un duro provvedimento di confisca dei beni dei Cistercensi a vantaggio dei Cavalieri Teutonici. Gli eventi, tuttavia, precipitarono il 26 dicembre quando, in coincidenza con la nascita ad Jesi del suo primogenito Federico II, accusando la vedova di tancredi d'aver ordito una congiura antiimperiale, la fece arrestare e deportare in Alsazia dopo aver fatto accecare ed evirare il figlioletto. Con questo inspiegabile atto cominciò la sanguinaria tirannide di Enrico VI, il cui governo fu di breve durata poiché la morte lo colse trentaduenne. Gli successe Costanza, in reggenza di quel figlio che archiviò la dinastia normanna di Sicilia, instaurandovi quella sveva.

La esiguità di documenti storici impedisce una ricostruzione attendibile del carattere e della personalità della Sovrana, della quale si sa con certezza che, il 29 ottobre del 1184, era stata costretta ad un contrastato fidanzamento politico. Ella aveva alle spalle una tradizione familiare di governi femminili cui attingere per regnare autonomamente ed energicamente: da Adelasia e da Margherita mutuò la tradizione di reggenza che la impegnò, sia pur per breve tempo, quale tutrice del figlio Federico II. Si può ipotizzarla dotata di temperamento forte, se è vero che nel 1188, nella causa di successione della Contea di Namur, contro la volontà del coniuge sostenne ad oltranza e con successo le ragioni del suo parente Baldovino di Hainault. Pari fermezza aveva manifestato nella scelta del nome del figlio: Federico Ruggero, In Auspicium Cumulandae Probitatis. Puntigliosa determinazione aveva infine manifestato anche nello scontro con Celestino III. Tuttavia, al di là delle ipotesi, resta il dubbio: davvero, il suo solido senso della giustizia la spinse a partecipare alla mortale congiura tramata contro Enrico VI, l'uomo che non avrebbe mai voluto sposare?

Tre coraggiose decisioni connotarono il suo mandato politico: l'espulsione degli stranieri dal Regno; la coraggiosa deposizione del Vescovo Gualtiero di Pagliara e l'indifferenza alla indicazione espressa dai Principi Tedeschi in favore di Federico, designato alla successione imperiale. L'unico legame che, a suo avviso, il figlio avrebbe dovuto mantenere con la Germania, sarebbe consistito del titolo di Duca di Swaben. Non le riuscì, al contrario, o non ne ebbe il tempo, di chiarire il rapporto di dipendenza feudale della Sicilia alla Chiesa, poiché il 25 novembre 1198 la sua improvvisa morte avviò il Regno alla catastrofe.
È certo che il suo breve governo la impegnò come Regina normanna di Sicilia e non come Imperatrice vedova, sicché la sua fondata cultura antigermanica la indusse a leggere pericoli mortali nell'assunzione della corona tedesca da parte del piccolo erede. Verosimilmente, fu in base a tale convinzione, in quel clima di intrighi ed instabilità politica per il Sud e per l'Impero, che ella pretese, fin dal momento dell'incoronazione del figlio, la rimozione dagli atti anche del titolo di Rex Romanorum. Non a caso, morto il marito, ella riaprì la zecca di Amalfi ordinando il conio di esemplari considerati un ripristino della tradizione arabo-normanna: monete d'oro sottilissime, lamellari, di stampo largo del peso di circa sei carati: i tarì; in arabo letteralmente fresco e, dunque, coniate di fresco. Di questa zecca sono noti quattro tipi di tarì: il primo, del 1197-98, che recava il nome di Federico Re di Sicilia, in arabo, con le iniziali latine di Federico e Costanza Imperatrice. Il secondo, emesso nel novembre del 1198 e recante il nome di Federico in latino e quello di Costanza Imperatrice in arabo.
Su un lato esibiva la data dell'Egira -595- e sull'altro la data cristiana di emissione -1198-. Esso fu sospeso con la morte di Costanza. Il terzo e quarto tipo furono coniati al nome di Federico Re, verso il 1200: recavano in caratteri arabi il nome del Sovrano.

Nel corso della dolorosa esperienza coniugale, Costanza non perse occasione per manifestare rancore e paura dei Tedeschi dai quali mirò ad allontanare il figlio; ma diffidenza e sospetto anche dei vertici della Chiesa che l'avevano costretta alla umiliazione del reintegro di Gualtieri di Pagliara nell'incarico di Corte.
Ella fu l'ultima normanna di Sicilia: l'ultima d'Hauteville.

Segnata fin dalla nascita anch'ella dalle profezie di Corte, come responsabile della rovina del fiorente Regno, suo malgrado avviò quella debolezza genealogica che concluse il destino della casata francese. Il figlio l'amò struggentemente, cogliendo tutte le più sottili implicazioni politiche che avevano determinato l'apparente scelta di defraudarlo dei diritti imperiali. Non a caso, in replica alla scomunica irrogatagli da Gregorio IX nel 1239, egli assimilò Jesi a Bethlemme e sua madre alla Vergine Celeste; né a caso, punì duramente Faenza, colpevole di avere insultato il cavallo dell'Imperatrice gravida ed in viaggio verso il Sud.
Se, dalla sofferenza materna, Federico II trasse la convinzione d'essere strumento divino di riforma di una Chiesa mondana e dissoluta, davvero Costanza ebbe il merito d'aver voltato pagina alla Storia. Il suo sforzo di restituire il territorio all'ordine e al benessere disegnati dal padre, fu assunto ad esempio dal figlio: l'Uomo che dette lustro al Sud; che estrasse l'Italia dall'orbita mediterranea e la proiettò in Europa; che per primo ebbe una visione unitaria di Nord e Sud della penisola; che fece del panitalianismo una occasione unica della Storia d'Italia; che immaginò e rincorse il progetto d'unificazione dell'Italia e dell'Europa sotto l'aspetto politico, legislativo, amministrativo, culturale e linguistico: Federico II di Hohenstaufen.

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