Le Grandi Battaglie

La Battaglia del Giglio

di Ornella Mariani
Castello Isola del Giglio
Castello Isola del Giglio

L'Aegilium, splendida perla fissa nel cuore del Tirreno, era anticamente appartenuta alla ricca famiglia dei Domizi Enobarbi. Nel Medio Evo, dalla dominazione dell'Abbazia delle tre Fontane, cui era stata assegnata con decreto di Carlo Magno, era passata alla famiglia degli Aldobrandeschi.

Era un paradiso di verde e di affilate ed impervie scogliere quando, quel 3 maggio del 1241, il suo intangibile ed inviolato silenzio fu rotto dal cozzo delle armi e dalle grida di uomini che la trasformarono in aspro teatro della terribile guerra fra l'indomito Federico II di Svevia e l'irriducibile Gregorio IX.

La lacerante crisi, che aveva contrapposto Papato ed Impero, aveva indotto il Pontefice all'adozione di misure estreme contro l'Hohenstaufen: un concilio da tenersi a Roma lo avrebbe dichiarato decaduto da Imperatore e da Re di Sicilia.

La tensione era diventata altissima poiché alti prelati, provenienti dall'Oltre frontiera, erano stati impediti dal varco delle Alpi, sorvegliate dalle massicce ed agguerrite truppe ghibelline. Viste interdette le vie di terra, Gregorio, che intendeva imprimere al conflitto una svolta irreversibile, si risolse a chiedere un segreto intervento al Comune di Genova, all'epoca governato da forze guelfe: un contingente navale avrebbe protetto la traversata degli ospiti del Papa da Nizza ad Ostia e, una volta a Roma, essi avrebbero ratificato le sue volontà politiche e messo definitivamente in scacco il potente nemico.

Venti unità, fra galee e taride furono attrezzate e poste sotto il comando di Jacopo Malocello che, portatosi nella cittadina francese, nelle prime ore del 25 aprile, organizzò l'imbarco dell'Alto Clero francese, spagnolo ed inglese, disponendo che l'Episcopato lombardo attendesse di essere recuperato sulle banchine genovesi. Una volta composto e difeso, il convoglio sarebbe giunto rapidamente sulle coste laziali e, da qui, nell'Urbe fremente di incertezza sull'esito di quel groviglio di odio non più di parte; non più di fazione; non più di contrapposizione politica, ma solo personale, connotato com'era ormai dall'esigenza che l'uno o l'altro, dei due spietati antagonisti, avesse definitiva ragione della storia.

Informato del sodalizio liguro/papale, Federico reagì con tempestiva energia immettendo nel Tirreno, con le prore rivolte verso Nord, una potente squadra navale sicula: ventisette unità armate, guidate da Ansaldo dé Mari, da suo figlio Andreolo e dal pisano Buzzacarino, avrebbero veleggiato lungo il litorale romano, al fine di impedire l'attracco ai Conciliari in navigazione verso Sud. L'ammiraglia della flottiglia genovese era già sotto Porto Venere, sede di confine meridionale della Repubblica, quando apprese che non solo galee reali, ma anche quaranta navi della Repubblica di Pisa, s'erano mosse a supporto degli interessi federiciani. L'imprevedibile ed impressionante schieramento di forze allarmò il Malocello: con audace decisionismo, egli attuò una manovra di dirottamento ed orientò le prore in direzione della Corsica. La modifica del percorso, benché allungasse i tempi programmati per il raggiungimento del litorale romano, rappresentava l'unica possibilità di sottrarsi ad uno scontro il cui esito era già segnato dalla superiorità numerica degli avversari. Tuttavia, il piano eversivo risultò fatalmente insufficiente: nel mattino del 3 maggio, dopo otto giorni di navigazione, nello specchio d'acqua fra l'isola del Giglio e Montecristo, la imponente armata federiciana aggredì il fragile e disorientato contingente genovese, sbarrandogli anche la via della fuga. Una manciata di ore, per la consumazione del dramma: tre galee genovesi colarono a picco con tutti gli occupanti, atterriti ed impegnati in una inutile difesa. Fra essi, anche l'arcivescovo di Besançon. Non meno amaro destino si abbatté su tutte le altre navi: circondate ed arrembate, furono rimorchiate verso la costa pisana, con il carico di oltre quattrocento prigionieri. Fra essi, circa cento prelati; tre Lagati Papali, compreso l'inviso cardinale Giacomo da Palestrina e gli abati di Cluny, Clairvaux e Prémontré, oltre ad un consistente numero di Vescovi ed Arcivescovi, ormai tutti alla mercé degli Imperiali. Le profezie l'avevano preannunciato: il mare si sarebbe arrossato ed increspato del sangue dei santi. Il tumulto delle armi e le grida dei combattenti, celebrando quella strepitosa vittoria, si erano ricevuti la solidarietà della Provvidenza:...anche il Dio della terra e del mare... aveva... testimoniato di essere accanto al Cesare felice...

A Pisa, ove li aspettava, Re Enzo tributò gli onori ai vincitori e ricevette i prigionieri: li avrebbe trattati con estremo rigore in ossequio alle disposizioni paterne che, nella loro condotta aveva letto una imperdonabile sfida all'autorità imperiale: parte fu alloggiata in carceri locali; parte fu trasferita nella rocca di San Miniato; parte fu tradotta in Puglia. Per lo Staufen, il successo dello scontro navale del Giglio ottenne il formale assenso divino: Dio ...guarda dalle sue altezze e procede e giudica secondo giustizia... Una implicita condanna del nemico dell'Impero: quel pugnace Gregorio sconfitto, umiliato ed in procinto di riceversi l'ulteriore castigo delle conseguenze politiche della battaglia: il rinvigorimento del ghibellinismo italiano, in particolare in Lombardia ed a Roma, ove i Colonnesi lo avrebbero indotto a più miti consigli.