Antologia

Dal Capitolare di Quiérzy alla Constitutio de Feudis

di Ornella Mariani
Capitolare di Quiérzy
Capitolare di Quiérzy

Carlo Magno traformò l'Europa feudale in un enorme edificio avente al vertice l'Imperatore ed ai lati un'immensa Periferia sorvegliata da una catena di poteri presto minacciati dal Papato e dai Feudatari: con la sua morte, infatti, cominciò quella lunga e travagliata stagione che, connotata da fasi di anarchia e di lotte per la successione, fece da retroterra al nuovo impianto sociale nel quale Signorie e Principati concorsero alla formazione dello Stato moderno attraverso il Capitolare di Quiérzy e la Constitutio de Feudis.

Introdotto dal Sovrano carolino, il Capitolare consisteva di una serie di prescrizioni mirate a regolare la vita pubblica dei Laici e degli Ecclesiastici contro le soverchierie consumate sui ceti inferiori dai ceti superiori. Esso fu integrato da Carlo il Calvo il 14 giugno dell'877, alla vigilia della partenza per l'Italia ove andava ad assumere la corona imperiale conferitagli da Giovanni VIII, alla presenza dei Romani e dei Grandi Laici ed Ecclesiastici del Regno longobardo-italico.

Col Capitolare di Quierzy-sur-Oise: il testo di legge più celebre del Diritto feudale egli mirò, in sostanza, a regolamentare i provvedimenti da assumersi nel perdurare della sua assensa: ...Se sarà morto un conte, il cui figlio sia con noi, nostro figlio, insieme con gli altri nostri fedeli disponga di coloro che furono tra i più familiari e più vicini al defunto, i quali insieme con i ministeriali della stessa contea e col vescovo amministrino la contea fino quando ciò sarà riferito a noi. Se invero avrà un figlio piccolo, questo stesso insieme con i ministeriali della contea e il vescovo, nella cui diocesi si trova, amministri la medesima contea, finché non ce ne giunga notizia. Se invece non avrà figli, nostro figlio, insieme con i rimanenti nostri fedeli, decida chi, insieme con i ministeriali della stessa contea con il vescovo, debba amministrare la stessa contea, finché non arriverà la nostra decisione. E a causa di ciò nessuno si irriti se affideremo la medesima contea a un altro, che a noi piaccia, piuttosto che a colui il quale fino ad allora la amministrò. Ugualmente, dovrà essere fatto anche dai nostri vassalli. E vogliamo ed espressamente ordiniamo che tanto i vescovi, quanto gli abati e i conti, o anche gli altri nostri fedeli cerchino di applicare le stesse regole nei confronti dei loro uomini... Se qualcuno dei nostri fedeli, dopo la nostra morte ... vorrà rinunciare al mondo, lasciando un figlio o un parente capace di servire lo stato, egli sia autorizzato a trasmettergli i suoi honores ... E se vorrà vivere tranquillamente sul suo allodio, nessuno osi ostacolarlo in alcun modo né si esiga da lui null'altro che l'impegno di difendere la patria... (Capitolare di Quierzy-sur-Oise, KK 2, cc. 9- 10)

Si trattò di una rilevante innovazione rispetto alla organizzazione feudale delle Marche e delle Contee dell'avo che, istituendole per ottenerne in cambio sostegno militare in caso di guerra, aveva mantenuto la revocabilità del beneficio riportandolo, alla morte del Feudatario, nel possesso di chi lo aveva concesso. La debolezza dei successori di Carlo Magno, tuttavia, aveva consentito ai sempre più autonomi Latifondisti di esercitare la trasmissione ereditaria frazionando le proprietà e cedendone l'uso a Vassalli che, a loro volta, li assegnavano ai Valvassori e costoro ai Valvassini: una prassi legittimata nel periodo delle invasioni barbariche quando, avviando l'incastellamento, i Signori consolidarono la propria egemonia in danno del potere centrale provocando il rafforzamento del legame fra Feudatario e Vassallo a garanzia della protezione in cambio di fedeltà e il rilancio del valore del Patto, fondato sulla coincidenza di necessitas ed utilitas e sull'onore alla parola esaltante il rapporto di dipendenza e contrapposizione di due entità: l'una, decisa a servire per essere tutelata; l'altra, incline ad essere servita ed a proteggere quello che, a margine di un rito di investitura fondato su una suggestiva gestualità simbolica, veniva definito Uomo di bocca e di mani. (Il soggetto rifugiato nella protezione di un Signore cui prometteva leale servizio, congiunte le mani, le poneva in quelle di lui e, recitata una formula attestante la sua sottomissione, lo baciava sulla bocca a conferma dell'intervenuto rapporto. Tale liturgia, distante dalla tradizione cristiana, fu successivamente sostituita con una ritualità che chiamò in causa direttamente Dio quale garante del patto: l'aspirante alla funzione vassallatica, ora, giurava al suo Signore una fedeltà estinguibile solo con la morte, ponendo una mano sul Vangelo: da quel momento, i due erano legati da un vincolo bilaterale benché, in sostanza, la dipendenza di un uomo dall'altro non esprimesse altro che la dipendenza di una terra dall'altra rendendo l'eredità del feudo, per dirla con Montesquieu, elemento costitutivo del governo, con diverso slancio rispetto alle strutture organizzativo-politiche adottate al tempo di Carlo Magno.)

In definitiva quell'atto, formalizzando il rapporto di dipendenza personale, estratto dall'orbita del privato, e consentendo al Signore d'esercitare la Sovranità fondiaria attraverso gli acquisiti diritti sui servi e l'esercizio della giustizia: dai diritti di Banno, fino alla coincidenza di proprietà terriera e potere pubblico, su di esso vigilando la superiore autorità imperiale, sollevava la spinosa questione dell'ereditarietà dei beni.

L'allontanamento dal Regno; la fragile reggenza del figlio Ludovico, affidato ad un Consiglio di Corona dalla dubbia lealtà; la conseguente esigenza di condizionare la fedeltà comitale garantendole, in caso di decesso, quei diritti da tempo sollecitati dai Feudatari Maggiori che de facto trasmettevano i loro beni agli eredi, esigendo il riconoscimento de jure, avevano imposto a Carlo il Calvo l'esigenza di fornire una prima soluzione al problema. Tuttavia, l'ordinanza di Quiérzy non istituì l'ereditarietà dei benefici maggiori ma si limitò a prendere atto di una prassi implicante il duplice stravolgimento della nozione di carica pubblica e della natura del beneficio medesimo.

Nei decenni precedenti, con i giuramenti di vassallaggio i Conti, Vassalli degli Imperatori e dei Re, avevano incluso nel beneficio non solo le terre e i diritti connessi alla carica comitale, ma la carica medesima e la circoscrizione territoriale ad essa collegata, determinando il fraintendimento della sua natura e la spinta all'ereditarietà dei feudi in genere e del grado di Conte in particolare.

In questo senso, il Capitolare di Quércy fissò i limiti entro i quali il Reggente poteva agire, garantendo lo Status quo fino al rientro del Sovrano. Quanto all'aspetto strettamente ereditario, la IX disposizione stabilì che nel caso di decesso di un Conte con un figlio minorenne o al seguito dell'imperatore, l'Ufficio di Reggenza non avrebbe potuto designare un successore, ma avrebbe dovuto limitarsi ad accertare la provvisoria e corretta gestione della Contea. Nello specifico: la gestione temporanea del territorio sarebbe stata affidata ai parenti più prossimi del defunto o al Vescovo della Diocesi in cui ricadevano i territori o ai Ministeriali, finchè la Corona non avesse diversamente deciso e, in assenza di eredi, sarebbe stato delegato un Amministratore controllato dall'autorità episcopale e ministeriale ove il X articolo del Capitolare sanciva che, in esito alla morte del Re, il Feudatario potesse disporre dei suoi Honores fra figli o parenti.

Nel discorso propedeutico alla emanazione del dispositivo, Carlo affermò esplicitamente quel diritto ereditario comitale che ad un secolo ed oltre di distanza, il 28 maggio del 1037, nel perdurare dell'assedio di Milano, Corrado II il Salico estese anche sui Feudi minori con la Constitutio de Feudis o Edictum de beneficiis regni italici.

Con essa si applicava il tentativo di sgretolare la compattezza del fronte feudale; di aggregare accanto alla Corona tutta la Nobiltà minore e di condizionare la ribellione di Valvassori e Mercanti contro il Vescovo di Milano Ariberto d'Intimiano, attorno al quale si era creata una Feudalità autonoma dal potere comitale ed i cui esponenti si chiamarono Capitanei.

In sostanza, mirando a limitare la potenza della Chiesa milanese, nel 1036 Corrado accolse le istanze delle città e della piccola Nobiltà contro la prepotenza di Ariberto e dei Grandi Feudatari e, in continuità con la politica già attuata in Germania, emanò quel provvedimento regolando la successione feudale e l'ereditarietà in linea maschile dei feudi anche minori; spegnendo le rivolte dei Vassalli italiani, a seguito dei gravi tumulti che avevano contrapposto Valvassori e Mercanti al Vescovo Ariberto d'Intimiano, alleato dei Grandi Feudatari Laici ed Ecclesiastici; concludendo, così, un efficace sodalizio fra Autorità imperiale e Piccola e Media Feudalità ostile alla Grande Nobiltà Laica ed Ecclesiale; frantumando il fronte feudale; coalizzando attorno alla sua causa tutta la Nobiltà minore e riconoscendo, oltre alla successione sui feudi minori, il diritto d'appello dei Valvassori al potere centrale. Da quel momento, nessun Vassallo avrebbe più perduto i benefici senza una colpa accertata da un Tribunale di suoi pari, il cui giudizio poteva essere impugnato in ultimo grado di appello avanti alla Corte. Per i Valvassori era invece sufficiente discutere la causa davanti al Vicario dell'Impero. Con tale ordinanza, in definitiva, non solo furono estesi ai Vassalli Minori i benefici di cui godevano i Grandi Feudatari, ma le gerarchie feudali furono equiparate e, contro la decadenza della Grande Feudalità ed il riconoscimento ai Valvassori di parità di diritti con i Grandi Feudatari, maturò un processo di rilevante consapevolezza sociale del Popolo.

Bibliografia: