Donne nella Storia

Matilde di Canossa

di Ornella Mariani
Miniatura tratta dall'opera di Donizone
Miniatura tratta dall'opera di Donizone "Vita della Contessa Matilde di Canossa", raffigura Enrico IV, scomunicato da Gregorio VII, che richiede l'intercessione a Matilde di Canossa. A sinistra l'abate di Cluny, Ugo il Grande (1049-1109). Miniatura del XII secolo.

...non esito, figlia amatissima e amorevole, a esprimerti questi miei pensieri giacché conto, tu forse non sai quanto, sul tuo fervore e sulla tua saggezza...

Così, nel 1074, scriveva Gregorio VII a Matilde di Canossa, serva fedele di Cristo; Figlia di Pietro; Ancella del Signore: la donna più potente del Medio Evo; la titolare di uno Stato il cui territorio si estendeva su gran parte dell'Italia settentrionale e centrale e per la cui difesa in battaglia si gridava per san Pietro e per Matilde; la testimone di quarant'anni di lotta fra Impero e Chiesa; la santa/guerriera protagonista della storia dell'XI secolo; la protettrice del Diritto e di giureconsulti insigni come Irnerio; la paladina della fede che, al di là del giudizio storico e delle suggestioni di parte, fu bella, intelligente, colta, coraggiosa, dotata di temperamento ardito e di abile talento diplomatico malgrado, malinconicamente sola, sotto l'immagine della virago mascherasse una personalità sofferente e complessa.

Amante di Gregorio VII e, come volle la propaganda antipapale, affetta da una insaziabile voracità sessuale; o sposa, vedova e vergine come la Chiesa continua ad asserirla, in una impropria analogia con la mitica Astrea?

La sua casata era stata fondata dal tedesco Sigifredo, proprietario di quell'enorme distretto tra Parma e Reggio. Il successore Attone lo ampliò, dopo aver realizzato nel 940 la rocca di Canossa ed il contiguo monastero di sant'Apollonio. Ma fu nell'agosto del 951 che la sorte gli arrise: accordata protezione alla Regina Adelaide, prigioniera di Berengario II, ottenne da Ottone I il consenso a sposarla e l'estensione della funzione comitale fino all'area modenese e mantovana. Da quel legame nacque Tedaldo che, nel 988, accorpò alla già imponente ricchezza anche le Contee di Brescia e Ferrara. Suo successore fu Bonifacio, sostenitore di Corrado II dal quale ottenne l'investitura anche della Marca di Tuscia e la mano della nipote Beatrice di Lorena e Lotaringia, espressione di una delle più facoltose famiglie feudali delle Fiandre e discendente di stirpe merovingia. Quando nel 1046, da quel matrimonio, terzogenita nacque Matilde, Mantova era stata già eletta a residenza familiare per la sua funzione strategica nelle comunicazioni fra Nord e Sud e, a seguito del rinvenimento della reliquia del Sangue di Cristo, vi si era avviata la costruzione di un cenobio dedicato a sant'Andrea. Nel giro di sei anni, tuttavia, quella solida serenità s'infranse: nel corso di una battuta di caccia Bonifacio, limpido e buono nel volto... negli atti e nei detti fu misteriosamente assassinato a san Martino dell'Argine, in un zona compresa tra l'Oglio e il Mincio.

L'infanzia dell'orfana Matilde fu presto provata anche dal prematuro decesso dei germani Federico e Beatrice, come documenta alla data del 17 di dicembre del 1053 la motivazione della donazione materna della chiesa di S.Maria di Badigusala al monastero ubicato nei pressi del cimitero di S. Maria di Felonica: per rimedio dell'anima di Bonifacio e dell'anima del figlio e della figlia mia.

In quella cupa cornice di lutti, educata alla lettura; alla scrittura; alla conoscenza dell' italiano, del tedesco, del francese e del latino, l'ultima discendente degli Attonidi si affacciò agli eventi del 1054 quando, consapevole di non poter governare da sola, la madre contrasse seconde nozze con l'ambizioso ed anch'egli vedovo Goffredo di Lorena detto il Barbuto. Censurata dalla Chiesa per la consanguineità fra coniugi, l'unione fu contrastata anche da Enrico III detto il Nero, che aveva deciso di riconoscere a Beatrice i soli beni ereditati per successione familiare e di cedere ad un suo fiduciario quelli concessi a Bonifacio per investitura imperiale, ovvero i Ducati di Spoleto e Camerino, parte della Lombardia e i territori di Reggio, Modena, Parma, Ferrara; in una, la fascia compresa dal Lazio al Lago di Garda, con funzione nodale sia per i Papi, quando dovevano assumere l'ufficio romano, sia per gli Imperatori, quando nella stessa Roma venivano incoronati.

L'irritazione fu esaltata dalla decisione di Goffredo di fidanzare Matilde, di otto anni, con l' omonimo figlio detto il Gobbo. Il contratto nuziale: una sostanziale ipoteca accesa sulla più ambìta Marca italiana, constava di un saldo patto di potere teso ad unire l'Alta Lorena ai domini italiani, contro le mire accampate dall'Imperatore.

In definitiva, mentre Beatrice riteneva d'aver tutelato la figlia da rischi di esproprio politico, con un colpo di mano il marito aveva posto sotto il diretto controllo della sua casata il più cruciale distretto italiano, sollevando indignata diffidenza per un vincolo pressocché incestuoso.

La reazione non si fece attendere: sullo sfondo dei turbolenti accadimenti che produssero lo Scisma d'Oriente, Enrico fece deportare in Germania Beatrice e Matilde, mentre Goffredo si salvava con la fuga. La riconciliazione giunse solo nel 1057, alla vigilia della sua prematura morte e dell'avvento al trono del figlio seienne Enrico IV, con reggenza materna a fortiori, in una fase in cui infuriava la lotta fra Patarini e Clero simoniaco e la Chiesa si batteva per quel diritto d'elezione riconosciuto ai soli Cardinali nell'aprile del 1059 quando Niccolò II, per stroncare l'influenza imperiale nella nomina al soglio pietrino e per condizionare la potenza tedesca, stipulò a Melfi un'alleanza politico/militare con i Normanni d'Hauteville. Fu però Alessandro II, nel 1062, ad escludere ogni interferenza laica dagli affari ecclesiali mentre, capeggiato da Annone, l'Episcopato tedesco rapiva Enrico IV trattenendolo fino al compimento della maggiore età e di fatto consentendo ai feudatari di sganciarsi dal controllo dell'autorità centrale.

Alla fine del 1069 a Verdun, moribondo, Goffredo il Barbuto ordinò che le nozze di Matilde e del figlio fossero celebrate alla sua presenza, onde accertarsi della successione tosco/ padana del suo erede. Per attenuare la rigidità del Papa, dispose la fondazione dell' abbazia di Orval, in Lorena, e di un monastero in Italia ove, di nuovo vedova, verso il 1070, Beatrice apprese che Matilde era incinta. Annotata in un diploma imperiale del 9 maggio 1071, la notizia fu confermata il 29 di agosto dalla motivazione che accompagnò le elargizioni concesse al cenobio di Frassinoro, istituito in conformità delle prescrizioni coniugali: ...per il bene della mia anima, di quella del defunto Marchese e Duca Bonifacio, un tempo mio marito, e per l'incolumità e l'anima di Matilde, diletta figlia mia, e per la grazia dell'anima del defunto Duca Goffredo, mio marito, e per la grazia dell'anima della defunta Beatrice mia nipote...

Evidentemente si trattava di una creatura messa al mondo dalla figlia e prematuramente deceduta. Tuttavia, dalle parole che motivarono il lascito, emerge una palese apprensione: Matilde era in cattiva salute o vittima delle conseguenze riferibili alla incapacità di partorire un erede che sopravvivesse e garantisse la prosecuzione della stirpe lorenese?

Di fatto, il 19 gennaio del 1072, abbandonato il tetto coniugale, la giovane sposa si rifugiò a Mantova. Il marito la fece oggetto di un infamante documento, prima di tentare le vie della conciliazione raggiungendola in Italia; inviandole doni e ricorrendo alla inutile mediazione del Papa: ogni rapporto si concluse il 26 di febbraio del 1076 col decesso di lui, vittima di un agguato ad Anversa. La sua morte, precedendo di due mesi quella della suocera, in coincidenza della elezione di Gregorio VII, spianò la via a quell'ininterrotto governo che per otto lustri fece di Matilde l'incontrastata padrona dell'Italia centro/settentrionale, in una stagione fra le più aspre del conflitto fra quel Papa di cui condivise la tensione riformatrice e l'Imperatore, cui la legavano vincoli parentali ed obblighi feudali.

La contrapposizione era esplosa nella notte di Natale del 1075 quando, su ordine di Enrico, Gregorio era stato rapito per aver redatto il Dictatus Papae col quale, istituendo un egemonico regime teocratico, lo scomunicava; anatemizzava l'Episcopato da lui investito; esentava i sudditi dal giuramento di fedeltà; gli ingiungeva di presentarsi penitente ad Augusta il giorno della festa della Purificazione di Maria del 2 febbraio del 1077. Nella delicata vicenda si inserirono i Principi Tedeschi che, nella Dieta di Tribur, accordarono al Sovrano un anno per guadagnarsi la revoca della sanzione religiosa. Per converso, con un contro/sinodo dei Vescovi di Germania, Enrico fece dichiarare decaduto Gregorio, eletto per acclamazione popolare e non in conformità di quelle prescrizioni canoniche inibenti, fin dal 1059, ogni intrusione laica nell'elezione pontificia.

L'inverno tra il 1076 ed il 1077 fu il più freddo del secolo: all'inizio di dicembre, intenzionato a liquidare definitivamente l'antagonista, il Papa mosse da Roma per Augusta: scortato da truppe matildine, contava di definirvi la questione col favore dell'abate di Cluny, proclive alla Riforma e padrino battesimale dell'Imperatore. Tuttavia, a Mantova seppe che proprio nell'Episcopato lombardo Enrico aveva recuperato il consenso di quanti constrastavano la politica riformista romana: con la moglie, il figlio ed un folto seguito, festeggiato il Natale nella borgognona Besançon ed affrontato il rigore delle Alpi, egli era entrato a Pavia e vi aveva raccolto l'adesione del Vescovo di Torino e dell'Alto Clero ostile a Gregorio, costretto alla fuga nella rocca matildina.

Teatro degli eventi fu Canossa ove, nell'incontro del 28 gennaio del 1077, surrettiziamente pentendosi, Enrico sventò la dichiarazione di decadenza dalle prerogative.

Se la contrizione fosse stata sincera, l'avrebbe espressa in Augusta: quel rimorso italiano, invece, tese a consolidare il potere; ad esercitare il diritto a dettare le regole dei successivi rapporti; ad eliminare quel sodalizio sorto ad Ulm e a Tribur fra Alta Feudalità germanica e Chiesa ed al quale aveva opposto la potente fazione che a Worms aveva deposto il Papa con un'azione la cui ratifica esigeva l'anticipazione delle decisioni del Tribunale di Augusta fissate al successivo 2 febbraio; a sfruttare la mediazione della cugina Matilde e di Ugo di Cluny che, inconsapevoli strumenti di manovra, avrebbero avallato l'autenticità di un senso di colpa solo di facciata.

Centrale, infatti, fu il ruolo della potente Marchesa che aveva traformato la tradizione laica familiare in un pilastro del guelfismo italiano; che mirava a preservare la titolarità dei suoi beni; che persuase il Papa dell'opportunità di concedere l'indulgenza e di confermare le prerogative ad un peccatore il cui pentimento era garantito proprio dalla saldezza del vincolo parentale; che evidenziò i pericoli cui la Chiesa si sarebbe diversamente esposta: il 20 gennaio, truppe tedesche si erano acquartierate in prossimità del maniero canossiano mentre a Montezane, previe garanzie assolutorie, l'Imperatore accettava di vestire da penitente, come suggerito da Matilde e da Ugo.

Il 25 gennaio, dopo tre giorni trascorsi al gelo, Enrico assolto e reintegrato nella funzione istituzionale, malgrado in cuor suo fosse furente non solo per aver dovuto vestire gli umilianti panni del pentito, ma per l'onta della amplificazione conferita all'evento dal Primate romano, nell'intento di ribaltare il senso dello smacco invece subìto.

Quella rigida stagione del 1077 in definitiva, segnando i destini di Chiesa ed Impero nella lotta per l'egemonia sull'Italia, rivelò tutta la provvisorietà dell'intesa, come si deduce dalla descrizione del pranzo di pace fornita da Rangerio Vescovo di Lucca:

...sta silenzioso il re, gli occhi fissi, pensando:
ha in odio il cibo, e chino a mensa trattien l'artiglio.
Gregorio il vede e già si pente,
e lo ammonisce di comportarsi sapientemente.
Ma tane han volpi e nidi d'uccelli
E l'uom di Cristo non ha riposo in alcun luogo!...

Gli eventi, infatti, degenerarono presto penalizzando anche Matilde: nel 1080, riaffermata l' autorità sui Principi tedeschi, Enrico riacutizzò la lotta contro la Chiesa e fu di nuovo scomunicato; nel 1081 a Lucca, espropriati i beni alla cugina, accusata di lesa maestà, la dichiarò decaduta da ogni funzione pubblica; nel marzo del 1084 stanò Gregorio da Castel sant'Angelo e lo costrinse a fuggire da Roma e a rifugiarsi, sotto la protezione di Roberto d'Altavilla, a Salerno ove il 25 maggio del 1085 morì esule; a Bressanone insediò sul trono pietrino Clemente III e si fece incoronare.

... Tanto perdette Matilde, sedendo nel chiostro che per raccontarlo non mi basta l'inchiostro.... Così il cronista filoimperiale Benzone d'Alba descrisse le condizioni psicologiche della Marchesa, in quella fase in cui il Sovrano le mostrò i suoi possenti muscoli. Ma ella era coriacea ed impavida: già nel 1059, ancorché solo tredicenne, era scesa in campo con la madre a sostegno di Alessandro II e, nel successivo 1066 ad Aquino, capeggiando un agguerrito contingente di quattrocento arcieri, col marito aveva fronteggiato i paladini normanni di Onorio II. Ora, malgrado isolata ed orfana del sostegno di Gregorio, non avrebbe subìto le soverchierie di Enrico che, spadroneggiando nelle sue terre, le faceva carico d'essere stata scomoda testimone della sua pur apparente sconfitta morale: a Canossa era stato assolto l'uomo e non l'Imperatore cui restava, invece, l'obbligo di presentarsi al Concilio di Augusta. L'affronto gli era stato inflitto non alla presenza di un Principe, ma di una donna che osava firmare i suoi atti con la dicitura Matilde per grazia di Dio; che si sentiva impropriamente investita da Dio; che aveva fornito indebita sacralità al suo ruolo; che non sarebbe mai stata colpita dalla terrificante arma della scomunica, per la sua devozione pari a quella di Paolo per Cristo; che esibiva l'aureola di castità e santità, benché la si assumesse da parti ghibelline mandante dell'assassinio di marito e prole ed amante di quel Pontefice più vecchio di lei di ventisei anni. Più di tutto, ad Enrico bruciava che fin dal settembre del 1079 ella avesse donato i suoi beni alla Chiesa, con un atto di sfida punito a Volta Mantovana ove anche la Feudalità lombarda le aveva voltato le spalle, ritenendola incapace di contrastare l'antiPapa.

Nel 1085, una minacciosa impennata imperiale indusse Matilde ed un esiguo gruppo di fedelissimi ad arretrare nell'Appennino: la più parte dei sostenitori aveva preso partito per il cugino che elargiva privilegi e poteri a Pisani e Lucchesi, promettendo di designare un altro capo della Marca. Le era indifferibile accettare il consiglio di Urbano II di garantirsi una protezione maschile con nuove nozze. Scelse il compagno nella fazione più ostile ad Enrico: quella dei Duchi di Baviera, ardenti papisti. La manovra non fu argine adeguato alla ulteriore spedizione punitiva del Sovrano che, concluso il breve pontificato di Vittore III, nel 1088 tornò in Italia per vendicare la rotta subìta a Sorbara il 2 luglio del 1084, a seguito del decreto col quale fin dal 1081, l'aveva defraudata di beni e funzioni pubbliche.

Il matrimonio, intanto, fu oggetto di diffuso dileggio: lo sposo aveva meno della metà degli anni di lei che, contro la promessa di nominarlo erede di parte dei suoi beni, confermò tutte le donazioni sottoscritte a favore della Chiesa durante il pontificato di Gregorio. La circostanza irrigidì Enrico che nel 1090 la fece oggetto di nuovi espropri, malgrado fosse preso dalle ribellioni dei figli Corrado ed Enrico V, incoraggiati dal Papa e dalla Comitissa.

Nel settembre del 1092, ella convocò un convegno a Carpineti: Vescovi, abati, notabili e in particolare Giovanni da Marola la spinsero nella prosecuzione del conflitto: rassicurata, tre anni dopo a Piacenza, appoggiò il programma della prima crociata; nel 1096, separatasi dal marito, con una lega di città lombarde fece eleggere Corrado Re d'Italia e nel 1099, infine, adottò il conte fiorentino Guido Guerra.

Nel frattempo, la lacerante frattura della familiare imperiale mutò lo scenario politico: fatto arrestare il padre, spentosi a Liegi nel 1106, Enrico V revocò il bando di Lucca; reinfeudò Matilde nei beni; ottenne la revoca dell'adozione del Guerra e l'assegnazione degli allodi alla morte di lei e, restituitale Mantova, a sei anni dalla sua proclamazione imperiale, il 6 maggio del 1111 la nominò viceRegina d'Italia concedendole, il 21 successivo a Verona, un diploma di conferma e protezione dei beni dell'abbazia di Polirone. Ma ella era stanca, provata ed affetta da gotta. Sessantanovenne si spense nel palazzo rurale di Bondeno il 24 luglio del 1115, fra le lacrime dei soli servi e munita del conforto di Bonseniore, Vescovo di Reggio Emilia. Mentre i suoi beni venivano divisi tra Papato ed Impero, nella previsione dell'accordo di Sutri tra Pasquale II ed Enrico V, involte nel saio benedettino, alla fine di un percorso accidentato dal contrasto fra la carnalità terrena e la ricerca spirituale, le sue spoglie furono ricomposte a san Benedetto di Polirone, finché nel 1632 Urbano VIII le comprò dall'abate Andreasi e le fece traslare in Vaticano, ove riposano nella tomba scolpita dal Bernini, sulla quale venne indicata Onore e Gloria d'Italia.

Matilde aveva indelebilmente segnato il Medio Evo, mantenendo una posizione di primo piano nel perdurare delle convulsioni politiche di cui il Sacro Romano Impero e il Papato furono protagonisti. Ma aveva vissuto dolorose sconfitte come donna: il disamore dei due mariti e la mancata maternità, in una stagione in cui assicurare continuità alla stirpe era pressocché un obbligo. E per quanto il Clero la vestisse di un'aura romantica: sposa fedele e vedova ineccepibile e casta, fu sposa sterile, vedova inquieta e mai vergine; donna di potere, anzi, al centro di uno scontro epocale, ed oggetto di giudizi contrastanti: se la Chiesa, testimoniandone la salda religiosità, la esaltò paladina della fede, gli ambienti filoimperiali la ritrassero ipocrita ed ambigua frequentatrice dell'alcova papale ed apostata del laicismo tradizionale alla famiglia.

In definitiva, se da una parte, incarnando le speranze italiane di affrancamento dalla oppressione imperiale, la sua figura fu immessa nel circuito nazionalista della letteratura romantica quale strenuo alfiere delle libertà civili ed interlocutore in grado di trattare da pari a pari con le due massime potenze dell'epoca, dall'altra fu bollata come fomentatrice del più dissoluto cesaropapismo.

La cauta sospensione del giudizio induce all'immagine di una donna fragile e forte: dentro un'epoca e contro un'epoca; col potere e contro il potere, entro contingenze che la orientarono verso un percorso di opportunismi non sempre condivisibili, ma necessari alla sopravvivenza.

Bibliografia: