Famiglie

Fortebracci

di Ornella Mariani
Braccio da Montone
Braccio da Montone

... Braccio... che per tutto ancora con maraviglia e con terror si noma...
Queste le parole fatte pronunciare da Alessandro Manzoni a Niccolò Piccinino nella tragedia Il Conte di Carmagnola per descrivere la personalità di Andrea Fortebracci detto Braccio.

Nato da Oddo e da Giacoma Montemelini il 1° luglio del 1368 a Montone, nell'alta Valle del Tevere, il Condottiero fra i più noti del suo tempo fu Governatore di Bologna; Rettore di Roma; Signore di Perugia; Principe di Capua; Conte di Foggia; Gran Connestabile del Regno di Napoli.
Cominciò giovanissimo la carriera militare impegnandosi come Paggio nella Compagnia di Guido d'Asciano e, a diciotto anni, passò al servizio del Conte di Montefeltro. Proprio in quel periodo, nella cornice di forti contrapposizioni locali, la sua famiglia fu defraudata di tutti i beni: giurata vendetta, Andrea entrò nella scuola di Alberico da Barbiano rivaleggiando con Muzio Attendolo Sforza, ma nel 1390 tornò a Montone e, aiutato da due fratelli, uccise tre componenti della famiglia avversaria dei Raspanti, colpevoli dell'esprorpio subìto.

L'azione gli valse una taglia che lo indusse a fuggire e ad offrirsi ai Montefeltro, contro i Malatesta. Nel corso dell'anno successivo, ferito nell'assalto della rocca di Fossombrone e sconfitto a Fratta Todina, però, egli rifiutò di servire il Signore perugino Biordo Michelotti e restò inattivo per qualche anno finché, nell'aprile del 1395, tornò nelle fila di Alberico da Barbiano per combattere nel Regno di Napoli.

Due anni dopo, servita Firenze, Andrea passò al soldo della Chiesa nel conflitto contro Perugia assediando Montone e, alla morte di Michelotti, attaccandola nel vano tentativo di occuparla.

Nel 1400, l'irrequieto Condottiero, la cui fama circolava in tutta la penisola, fu ingaggiato dai Visconti ma, due anni più tardi, morto Giangaleazzo, tornò a battersi per la Chiesa proprio contro Milano. Quando, tuttavia, nel 1403 Bonifacio IX si riconciliò col Duca ottenendo il controllo di Bologna, Assisi e Perugia e la fazione dei Raspanti pretese che i fuoriusciti non si avvicinassero oltre le venti miglia dalla città, Braccio fiancheggiò Alberico da Barbiano e Lorenzo Attendolo contro Faenza e contro la Chiesa medesima. Lo scontro, consumatosi lungo il fiume Reno, fu considerato un raro esempio di abilità e rapidità militare: a fronte delle difficoltà delle truppe di Alidosio di Cunio, soverchiato dal nemico, Andrea ordinò la costruzione di tre passerelle che gli consentissero di traversare le acque e, una volta trinceratosi oltre le sponde, di sostenere i sodali e opporsi agli assalti pontifici. La sua retroguardia rifulse in campo di tale eroismo da valergli il titolo di Cavaliere, un aumento di paga e di condotta ed il diritto di inserire nel suo stemma le insegne nobiliari del Conte. La circostanzasuscitò molte invidie: l'imminenza di una cospirazione mirata a sottrargli il comando completo della prestigiosa Compagnia fu insinuata da Rosso d'Aquila e da Lorenzo Attendolo in Alberico, che ordinò l'immediata eliminazione del pur innocente Braccio, datosi alla fuga. Quando in seguito, l'astiosa menzogna fu evidente, vano risultò ogni tentativo del Barbiano di recuperare l'antica amicizia: il Condottiero era solo assetato di vendetta in danno dei Perugini ed ossessionato dalrecupero del suo castello di Montone.

Fra il 1406 ed il 1407, a margine di varie scaramucce proprio contro Perugia, egli costituì il suo esercito e, per pagarlo, si acquartierò a San Sepolcro mantenendosi col taglieggio dei piccoli borghi romagnoli e dell'alta Valle del Tevere, prima diaccettare la condotta di quattromila fiorini offertagli da Imola e di impegnarsi allo scioglimento dell'assedio di Rocca Contrada, la cui Signoria gli veniva offerta contro l'eliminazione di Luigi Migliorati, Signore di Fermo e nipote del Papa.
Fu la prima esaltante vittoria: l'acquisizione di quel territorio allarmò tutta l'area picena, poiché presto Braccio sottomise Ancona e Fano; cacciò Carlo Malatesta da Camerino e travolse il Migliorati a Monte Conscio.
Era il 1408: l'occupazione del Conero; le irruzioni nei domini dei Trinci di Foligno; la devastazione dell'area fanese si conclusero con una riconciliazione con l'avversario e col passaggio sotto le insegne di Ladislao di Napoli che, impressionato da tanto talento militare, lo chiamòper l'imminente conflitto con Firenze e con il Papa.

Andrea combatté, così, intorno a Todi, in attesa di essere rincalzato dalle truppe partenopee per l'affondo finale su Perugia che a sorpresa si disse pronta alla resa, a condizione che il Re gli negasse l'accesso: già meditando di sbarazzarsene, Ladislao accettò la proposta e l'ingombrante Capitano, deluso, se ne andò al servizio di Firenze.

L'Italia attraversava, allora, una fase di estrema incertezza: più Papi si contendevano la tiara e due Sovrani aspiravano al Regno di Napoli. Assieme al Cardinale Legato di Bologna Baldassare Cossa, Alessandro V aveva costituito una Lega e chiesto il sostegno di Luigi II d'Angiò, cui aveva offerto la corona meridionale mentre il Re in carica appoggiava la causa di Gregorio XII.
L'aspra querelle si risolse con la incoronazione dell'Angioino e la scomunica di Ladislao: in quel contesto Braccio, che aveva consolidato le sue tecniche militari fondate sulla velocità di manovra e di movimento, chiamato da Giovanni XXIII a governare Bologna, ne profittò per taglieggiare Ravenna, Forlì, Rimini e Cesena ma, avuta notizia della morte dell'ambiguo Sovrano partenopeo, protettore di Perugia, non ebbe indugi nel cedere il Governatorato per centottantamila ducati d'oro e tornare in Umbria occupandone castelli e borghi.

Invocato l'aiuto di Carlo Malatesta, esigente una cospicua condotta ed il controllo politico dell'area, i Perugini ne accolsero le richieste e lo nominarono Difenditore della città. Tuttavia, Braccio lo catturò col nipote Galeazzo a sant'Egidio sul Tevere il 12 luglio del 1416, quando debuttarono in campo il giovanissimo figlio Oddo, nato da una relazione con una ragazza di Città di Castello ma legittimato, ed il suo più promettente discepolo: Niccolò Piccinino. A margine dello scontro, il Condottiero subordinò la libertà degli ostaggi al pagamento di circa ottantamila ducati d'oro: un esborso cui i Perugini si sottrassero, rassegnandosi ad aprirgli le porte e ad investirlo della Signoria, mentre anche Todi, Narni, Terni e Orvieto gli offrivano lo stesso privilegio. Di fatto, ora Andrea disponeva di un piccolo Stato ai confini della Chiesa le cui turbolenze si erano nel frattempo risolte a Costanza con l'elezione di Martino V. A costui, egli chiese ufficialmente l'incarico di Vicario ecclesiale sull'Umbria, ma il Primate gli oppose in armi Guidantonio di Montefeltro e Muzio Attendolo Sforza.

Nell'aprile del 1419, sconfitti costoro a Spoleto, Braccio progettò di impadronirsi delle loro terre, da Gubbio ad Urbino, perseguendo un progetto di espansione che lo portasse dall'Umbria all' Adriatico: il sogno s'infranse il 14 marzo del 1419 quando, su mediazione di Firenze, il Papa gli riconobbe l'investitura delle terre strappate alla Chiesa a condizione della riconquista di Bologna. Egli, allora, si ritirò a vita privata nella sua Perugia e, già vedovo di Elisabetta Ermanni che gli aveva dato tre figlie femmine, sposò Niccolina Varano, dalla quale ebbe nel 1421 il figlio Carlo.

In quel periodo, si incrinarono i rapporti fra Giovanna II di Napoli e Martino V. La condizione vassallatica del Regno aveva consentito a molti Papi di svolgere un ruolo assai attivo nelle vicende politiche napoletane: in virtù della asserita sua Signoria feudale, il Primate chiese alla Sovrana un sostegno economico per la ricostituzione del suo esercito e, al suo diniego, per rappresaglia investì della corona Luigi III d'Angiò, figlio di Ladislao e già pretendente al quel trono per effetto del diritto ereditario conferito da Giovanna I a suo nonno Luigi I. Colpita da scomunica, la irriducibile Regina reclutò Braccio, le cui truppe invasero l'Abruzzo: i risultati della campagna gli valsero la nomina a Gran Connestabile del Regno e i feudi di Capua e Foggia. Era il 3 febbraio del 1424.

Se la Sovrana poi mutò rotta, il Condottiero restò coerentemente schierato con gli Aragonesi: gli eserciti erano pronti a scontrarsi quando, in marcia verso l'Aquila, Muzio Attendolo Sforza annegò nella Pescara. Lo sostituirono il figlio Francesco, Jacopo Caldora e Bartolomeo Colleoni mentre nell' ala braccesca sfilavano gli uomini di Niccolò Piccinino e del Gattamelata: il meglio dei Capitani di Ventura del tempo. Il 2 giugno del 1424, lo scontro campale: ferito a morte da una pugnalata al collo, Fortebracci fu catturato e si spense dopo tre giorni di atroci sofferenze.
Ludovico Colonna ne portò le spoglie a Martino V, che ne ordinò la sepoltura in terra sconsacrata: otto anni più tardi, il nipote Niccolò della Stella avrebbe ottenuto da Eugenio IV il consenso ad inumarle nella chiesa dei Minori di Perugia.

Memoria delle sue imprese è testimoniata in una sala del locale palazzo comunale da quattro affreschi di Tommaso del Papacello: nel primo, egli prende da Giovanni XXIII il bastone di comando dell'esercito pontificio; nel secondo riceve dagli Ottimali la Signoria cittadina; nel terzo è investito dai Dignitari d'Alfonso d'Aragona del titolo di Principe di Capua; nel quarto è ritratta la sua morte in campo.

La leggendaria eredità fu raccolta dal figlio Oddo che, a sedici anni, dopo aver sposato Elisabetta Trinci, aveva avuto dal padre il potere su Perugia e Città di Castello. Rivelatosi presto all'altezza delle aspettative, egli sedò una rivolta esplosa a Perugia, Spoleto, Todi e Spello; riorganizzò col Piccinino le milizie paterne; si pose al servizio dei Fiorentini: proprio combattendo per costoro contro i Visconti, il 1 febbraio del 1425, però cadde in campo in valle dell'Amone.

Gli subentrò il cugino Niccolò della Stella, figlio di padre ignoto e di Stella, sorella di Braccio.
Nato a Sant'Angelo in Vado ed assunto il nome della madre come cognome, nel 1426 egli servì Firenze col Gattamelata, ma non appoggiò la dura opposizione espressa al Papa dalla zia vedova Nicolina Varano che, nel dicembre del 1428, fu costretta a lasciare Gualdo, Città di Castello e Montone e a trasferirsi col piccolo Carlo a Camerino. Fu poi la morte di Martino V a rilanciare la questione riferita al controllo delle città umbre già in possesso della famiglia braccesca: nel 1431 Niccolò occupò Città di Castello, la cui Signoria fu offerta al Duca d'Urbino che lo costrinse ad arretrare a Montone. In cambio della nomina a Gonfaloniere della Chiesa concessagli dal nuovo Primate Eugenio IV, il Capitano di Ventura accettò di condizionare in Toscana l'avanzata dell' Imperatore Sigismondo, posizionandosi lungo la Valle Tiberina. L'azione determinò la rottura dei rapporti col Pontefice: Niccolò, allora, passò alla fazione viscontea marciando su Roma. Il 25 agosto del 1433, con le truppe dei Colonna, occupò ponte Milvio e i guadi sull'Aniene; assediò l'Urbe, impaurendo Eugenio IV che si asserragliò in Castel Sant'Angelo; entrò in Tivoli in ottobre, mentre la fuga del Papa spianava la via ad una improbabile Repubblica.

Come già il mitico zio diciotto anni avanti, anche egli provò l'ebbrezza di essere padrone della città capitolina, dalla quale poi mosse verso l'Umbria occupando Assisi e proclamandosene Signore: nell'inoltrato autunno di quel 1433 sposò Ludovica, figlia del Signore di Poppi Francesco da Battifolle, mentre Eugenio IV si alleava con Firenze e Venezia.

Il Comandante delle truppe alleate Francesco Sforza inviò contro il rivale il proprio fratello Leone, sconfitto e catturato a Foligno, e successivamente incaricò il germano Alessandro di fermare l'irriducibile Niccolò: il 23 agosto del 1435, per il Condottiero fu la fine. Colto di sorpresa e tentata la fuga, egli fu rincorso da Cristoforo da Forlì: nella zuffa che ne conseguì, insieme precipitarono in una scarpata ma, impigliato da una briglia e finito sotto il cavallo, malgrado ogni strenuo tentativo di difesa, Niccolò fu mortalmente colpito tra naso e guancia e si spense, appena trentenne, una manciata di minuti dopo l'arrivo dell'inviso Sforza.

La sua eredità fu raccolta dal quindicenne cugino Carlo, figlio ed erede di Braccio nella Signoria di Montone strappatagli da Giovanni Vitelleschi. Impedito dal difendersi per la giovane età, in nome della vecchia amicizia col padre egli chiese aiuto al Piccinino che ne accolse le istanze, prendendolo seco ed istruendolo nel mestiere delle armi.
Carlo trascorse vent'anni al servizio della Serenissima, fornendole un contributo tanto devoto e leale da guadagnarsi l'appellativo di Marchesco. Recuperata Montone, sposò Margherita, figlia di Sigismondo Malatesta; ma l'insediamento di Sisto IV ribaltò gli equilibri faticosamente raggiunti: il Papa gli ingiunse di sgombrare e lo attaccò col Duca d'Urbino e col nipote Girolamo Riario. Impossibilitato a difendersi, Carlo rinunciò ai suoi diritti e tornò a Venezia, per la quale guerreggiò proprio in Umbria puntando a rientrare nel possesso dei suoi beni.
Forse avrebbe realizzato il suo sogno, se il 17 giugno del 1479 non fosse morto.

La saga braccesca s'era conclusa.

Bibliografia: