Famiglie

Sforza

di Ornella Mariani
Bandiera di Massimiliano Sforza (1512-1523)
Bandiera di Massimiliano Sforza (1512-1523)

Il secolo XIV fu connotato dalla quella rinascita sociale, politica, economica e culturale che, archiviando l'esperienza comunalistica, spianò la via all'Età delle Signorie e consentì a poche Famiglie di spartirsi il controllo dell'Italia settentrionale e centrale.

In Lombardia si affermò la dominazione viscontea dell'abile e violento Bernabò il cui nipote Giangaleazzo, dopo averlo usurpato; fatto arrestare ed avvelenare, assunse il titolo ducale ed ampliò i confini fino a Pisa, Siena, Verona e Bologna.

Alla sua morte, nel 1402, il Ducato conobbe una fase di profonda instabilità e con l'ultimo dei Visconti: Filippo Maria, tornò ai confini originari. Nel 1450 il suo potere passò al Capitano di Ventura Francesco Sforza, marito della figlia illegittima Biancamaria.

La nuova Dinastia garantì benessere finanziario, urbanistico ed artistico e fu rappresentata dal Conte di Cotignola Muzio Attendolo; dai Duchi Francesco I e Galeazzo Maria; da Biancamaria, Imperatrice del S.R.I.; da Giangaleazzo Maria; da Bona, Regina di Polonia e Duchessa di Bari; da Ludovico il Moro; da Ercole Massimiliano e da Francesco II.

Giacomo Attendolo

Allungato fra Imola e Cesena, il borgo di Cotignola fu spettatore del debutto di Giacomuzzo Attendolo, nato il 28 maggio del 1369 da Giovanni ed Elisa Petraccini; coniugato in prime nozze ad Antonia Salimbeni di Siena, dalla quale ebbe il figlio Bosio; in seconde, con Caterina di Napoli ed in terze con la Principessa Maria Marzana di Sessa; padre di sette figli, fra cui il prediletto Francesco, concepiti da Lucia da Torsano, di ulteriori quattro maschi generati da Tamira di Cagli e di altri due nati nel terzo matrimonio.

Già detto Muzio e soprannominato Sforza da Alberico da Barbiano per la straordinaria possanza fisica, con quell'appellativo trasmesso alla intera casata si impose alla guida della Signoria di Milano mantenendole fino al XV secolo l'unità territoriale conseguita dai Visconti.

Vocatosi alla vita militare, con i fratelli Bartolo, Bosio e Francesco ed i cugini Micheletto e Lorenzo, si arruolò nella Compagnia di san Giorgio apprendendone le più sofisticate tecniche belliche e, dopo il primo ingaggio di Francesco Broglia, ottenne dai Perugini la prima condotta nel 1398, contro i Duchi di Milano. Ma proprio Giangaleazzo Visconti, in omaggio alle sue gesta leggendarie gli raddoppiò la paga: si trattò di un contratto di breve durata poiché intrighi e rivalità orientarono Giacomo verso il soldo fiorentino, ancora contro Milano, proiettandolo in esperienze alterne ed intense: nel giugno del 1402 la sconfitta subìta a Casalecchio dal vecchio maestro Alberico da Barbiano; nel 1404 la vittoria riportata su Agnolo della Pergola e la conseguente occupazione di Pisa e Castiglione della Pescaia; il successivo contratto a servizio di Niccolò d'Este per il quale batté a Modena ed inseguì fino a Reggio il sedicente Signore di Parma Ottobuono Terzi, ricevendo in compenso la Signoria di Montecchio; i trionfi conseguiti su Ladislao di Napoli; il successo di Rossasecca del 1411 accanto a Luigi II d'Angiò; l'espulsione di Braccio da Montone da Roma nel 1417.

Il mito si consolidò nel 1409 quando, nella cornice dei grandi stravolgimenti politici e religiosi causati dalla presenza di ben tre Papi, gli si rivolse una Firenze intimorita dalle scorrerie proprio di Braccio da Montone, già padrone di gran parte dell'Umbria. Tuttavia, la sua fama fu ridimensionata dal contagio di peste che stroncò la vita dei tre fratelli.

Ben presto, ancorché solo, assoldato da Giovanni XXIII egli sbaragliò a Roccasecca il Re di Napoli ricevendone la Signoria di Cotignola e mai più immaginando che proprio la Corte partenopea gli spianasse la via degli onori designandolo Gran Connestabile del Regno ed opponendolo questa volta al Pontefice: nel 1413 l'Armata navale napoletana risalì il Tevere e, mentre Giacomo assediava a Rocca Contrada le truppe papali di Paolo Orsini, Ladislao entrò in Roma puntando, nel volgere di un anno, su Firenze abbandonata quando le cattive condizioni di salute lo costrinsero a tornare nel Regno ove si spense nell'agosto del 1414.

L'avvento della sorella Giovanna II al trono confermò il credito di Giacomo, già vedovo, sollevando una marea di invidie che lo obbligò, per i dieci anni successivi, a destreggiarsi tra beghe di Corte ed arresti, il primo dei quali disposto dall'ostile ed invidioso favorito della Regina Pandolfo Alopo. La dura reazione delle milizie, tuttavia, gli valse la liberazione, una rendita di ottomila ducati, la Signoria di Benevento e Manfredonia e la mano della Principessa Caterina. Ma, in coincidenza delle nozze della Sovrana con Giacomo di Borbone, l'8 settembre del 1415 egli fu nuovamente arrestato: i suoi uomini insorsero ancora a Tricarico, esigendone la rimessa in libertà mentre una rivolta delle Baronie napoletane privava il Re consorte delle prerogative regali. Reintegrato nella carica di palazzo, lo Sforza ampliò i suoi feudi con terre in Calabria e in Cilento. Ma le sue alterne vicende erano tutt'altro che concluse: quando l'esuberante Giovanna prese per amante Giovanni Caracciolo, egli parteggiò per il pretendente al trono Luigi III e si scontrò col Generale delle truppe aragonesi Braccio da Montone.

Intanto, nel 1418, reduce da Costanza, per ricostituire lo Stato ecclesiale, Martino V aveva stretto relazioni con la Corte partenopea attraverso il nipote Antonio Colonna e, in cambio del riconoscimento dei diritti della Regina, aveva ottenuto la consegna di Civitavecchia, di Ostia, di Roma e di tutte le terre già occupate da Ladislao nonché il sostegno militare contro Braccio da Montone per il recupero di Perugia e delle zone limitrofe. Giovanna fu solennemente incoronata a Napoli il 18 ottobre del 1419 in presenza di Antonio e Giordano Colonna: designato Gonfaloniere della Chiesa, Giacomo avviò la spedizione contro il pugnace Condottiero perugino cui la fortuna arrise nella sanguinosa battaglia tra Montefiascone e Viterbo.

Il Caracciolo strumentalizzò la rotta per pretendere dalla Sovrana l'opposizione alle richieste di aiuto avanzate dal Papa che, indignato, grazie alla mediazione fiorentina s'accordò con Braccio.

Costui entrò in una osannante Firenze nel febbraio del 1420 e giurò fedeltà a Martino V cui cedette Narni, Terni, Orvieto ed Orte in cambio del titolo di Vicario della Chiesa e del possesso di Perugia, Todi, Assisi, Spoleto, Spello ed Jesi. Poi, su suo ordine, marciò contro Antonio Galeazzo Bentivoglio, arbitrariamente insignoritosi di Bologna il 26 gennaio.

Il Primate varcò le mura di Roma il 29 settembre del 1420, pronto a vendicarsi di Giovanna: la guerra di successione al soglio partenopeo era ormai aperta.

Giacomo Attendolo Sforza si schierò ancora per Luigi III e si accinse ad avanzare su Napoli.

Fingendosi paciere, Martino V invitò i due pretendenti al trono a risolvere pacificamente la querelle. Il Legato Antonio Caraffa detto Malizia, percepito l'intrigo, procurò alla Sovrana il supporto di Alfonso d'Aragona che, per ritorsione, ordinò l'obbedienza all'antiPapa Benedetto XIII mentre l'allarmatissimo Luigi III si recava a Roma in cerca di aiuti.

Indebolendo l'Angioino, già fiaccato dall'intervenuto mutamento dei rapporti fra Giovanna ed Alfonso d'Aragona, Giacomo allora si riconciliò con Braccio da Montone e, raggiunto dalla notizia del decesso della seconda moglie, si risposò con Maria Marzana di Sessa; assunse il comando delle truppe papali e angioine; assoldò Jacopo Caldora, Bartolomeo Colleoni e il figlio Francesco e si spostò da Benevento a l'Aquila per liquidare proprio il nuovamente ostile Braccio da Montone ed i suoi alleati filo-aragonesi Erasmo Gattamelata e Niccolò Piccinino.

Alla fine di dicembre del 1423 si accinse al guado della Pescara ma il 3 gennaio, quando il suo scudiero fu travolto dalle acque in piena, senza indugi si tuffò per salvarlo e concluse la sua generosa esistenza annegando.

Il suo corpo non fu mai trovato.

Francesco

Nato illegittimo da Lucia Terziani il 23 luglio del 1401 a San Miniato e riconosciuto con gli altri fratelli per una concessione speciale della Regina Giovanna, Francesco trascorse parte dell' infanzia a Ferrara alla Corte di Niccolò d'Este e parte a Tricarico della quale, undicenne, fu designato Conte dopo essere stato armato Cavaliere.

Il 23 ottobre del 1418 a Rossano calabro sposò Polissena Ruffo di Calabria, vedova del terriero francese Giacomo de Mailly: ella mancò a due anni dalle nozze, con la neonata Antonia.

Emulo del padre, contrasse la sua prima esperienza in campo combattendo accanto al padre a dodici anni ed esibendo le doti di soldato ardito e potente: nel 1419 a Viterbo liberò il genitore dall'accerchiamento tesogli da Braccio da Montone; nel 1420 occupò Acerra con lo zio Micheletto e partecipò alla campagna contro la Regina Giovanna, restando ferito; nello stesso anno si recò come Vicerè in Calabria, nelle terre ereditate dalla moglie, dando prova di grande talento politico e nel 1421 a Cosenza guidò la difesa di Luigi III d'Angiò; dopo la vittoria riportata a l'Aquila, infine, fu a servizio di Martino V per stroncare le velleità del Signore di Foligno Corrado Trinci.

Tornato a Napoli in seguito al decesso paterno, marciò contro Napoli che riconquistò per Giovanna dopo aver corrotto il Governatore Jacopo Caldora, del quale sposò la figlia. Con costui prese l'Aquila conoscendo nello stesso periodo il Capitano di Ventura Guido Torelli che lo accreditò a Filippomaria Visconti: nel 1425 accettò la condotta milanese combattendo con Niccolò Piccinino contro il Carmagnola. Dopo alterne vicende, ed in particolare dopo le sconfitte subite a Maclodio e a Brescia nel 1427, caduto in un'imboscata e salvato dal provvidenziale intervento della Signora di Ronco Eliana Spinola, cadde in disgrazia agli occhi del Duca che lo relegò a Mortara con paga ridotta.

Tornato in auge nel 1431, combatté ancora col Piccinino contro Venezia sconfiggendola a Soncino e riacquistando la considerazione del Visconti che gli offrì la mano della figlia Biancamaria, legittimata con privilegio imperiale. Ottenuto l'annullamento del precedente vincolo, il 23 febbraio del 1432 Francesco stipulò il nuovo contratto nuziale. All'evento seguirono gli attacchi allo Stato ecclesiale tra il 1433 e il 1435, in un alternarsi di spregiudicate alleanze che lo videro prima combattente nella Marca di Ancona per il futuro suocero e poi Vicario di Eugenio IV dal quale fu promosso Gonfaloniere della Chiesa, mentre Alfonso d'Aragona gli confiscava i beni nel Regno di Napoli per attrarlo verso Sud ed allontanarlo dal Nord dell'Italia.

Nel febbraio del 1441 Piccinino accampò diritti sulla Signoria di Piacenza: Francesco fu ingaggiato dal Visconti che, dopo avere a lungo tergiversato, il 25 ottobre fece finalmente officiare le nozze con la figlia nella chiesa di san Sigismondo di Cremona.

Subito dopo, mirando a recuperare i suoi territori nel Sud, egli aderì alle richieste di Renato d'Angiò e marciò contro l'Aragonese ricevendosi la scomunica e la revoca dell'incarico di portabandiera. La sconfitta di Antonio Caldora e degli Angioini nella Marca anconetana mosse Firenze e Venezia in sostegno dello Sforza, nell'intento di arginare l'espansione di Alfonso. La gratifica fu dell'8 novembre del 1443 quando Sigismondo Malatesta sconfisse il Piccinino e la nuova guerra tra la Serenissima e Ducato si concluse col successo militare di Micheletto Attendolo sul Po: Francesco fu nominato Capitano Generale di Milano.

Fu l'ultimo atto sottoscritto da Filippo Maria Visconti, spentosi il 13 agosto del 1447 mentre il genero muoveva dalle Marche verso la Lombardia ove l'istituita Repubblica ambrosiana avrebbe risolto la questione successoria offrendogli il comando generale, mentre Pavia e Parma rivendicavano la loro autonomia e mentre Lodi e Piacenza si davano ai Veneziani.

Battute il 14 settembre del 1448 a Caravaggio le milizie venete, a margine della vittoriosa battaglia fluviale del luglio precedente a Casalmaggiore, ove la Marina di Venezia aveva subìto una cocente umiliazione da parte dei Ducali guidati dal nobile pavese Pasino degli Eustachi, Francesco intavolò negoziati con la Repubblica marinara. Il 14 ottobre a Rivoltella firmò la pace, impegnandosi a sgombrare i territori di Bergamo e Brescia ed a rinunciare a Crema ed alla Ghiara d'Adda acquisendo, per contro, il controllo di Lodi, Brivio e Lecco e l'appoggio contro l'Aurea Repubblica Ambrosiana Autonoma.

Capeggiati dai Trivulzio, dai Cotta, dai Lampugnani e da una serie di Mercanti intenzionati a sostenere l'utopistica istituzione fino a porre sulla testa dello Sforza una taglia di duecentomila ducati, i Milanesi insorsero. Privo di alternative, nel 1449 con un'azione di forza egli occupò l'area fra l'Adda e il Ticino e bloccò le vie d'accesso al capoluogo mentre, irrispettosa dei patti, Venezia abbandonava l'alleanza a favore della Repubblica.

L'assedio di Francesco tenne in scacco la città per otto mesi, finché la mancanza di rifornimenti sgretolò il fronte di resistenza: affamato, il Popolo voltò le spalle all'Aristocrazia e gli aprì le porte consegnandosi ad una lunga fase di insperata prosperità.

Lo Sforza entrò in Milano il 22 marzo del 1450 con la moglie e il figlio: quale nuovo Duca gli furono offerti lo scettro, lo stendardo con la biscia viscontea e l'aquila imperiale, il sigillo, la spada e le chiavi. Archiviata la luminosa carriera di Condottiero, iniziava quella di Principe che per sedici anni avrebbe provvidamente retto le sorti del più prestigioso Ducato europeo.

Affrontò subito alle questioni d'urgenza nominando nuovi Giudici e Magistrati; modernizzando lo Stato; dotandolo di nuove chiese, edifici e castelli; instaurandovi un efficiente regime fiscale; incrementando le entrate; rendendo la sua Corte accorsato centro artistico ed intellettuale; migliorando la rete viaria; ordinando la costruzione del primo ospedale ed affidandone l'esecuzione al più grande architetto dell'epoca: il toscano Antonio Averlino detto Il Filarete; riscuotendo popolarità fra i sudditi e credibilità internazionale, tali da esemplarmente incarnare Il Principe di Machiavelli. Nel gennaio del 1452 ottenne l'investitura imperiale e, stretta alleanza con Cosimo de' Medici, sollecitò Renato d'Angiò contro gli Aragonesi nel Regno di Napoli; riaprì le ostilità con i Veneziani che lo avevano a suo tempo tradito ed utilizzò la formidabile competenza di Bartolomeo Colleoni per affrontare anche Luigi Gonzaga.

La tregua sopravvenne il 29 maggio del 1453 parallela alla caduta di Costantinopoli in mano turca. All'evento il Papa oppose la Santissima Lega cui aderirono Firenze e Venezia: Francesco, le cui truppe erano già in assetto di guerra in territorio veneto, accettò la pace del 9 aprile del 1454 a Lodi ottenendo dai Veneziani il consenso segreto al recupero dei castelli conquistati dal Duca di Savoia e dal Marchese di Monferrato.

Nel 1461, sostenne Genova nell'opposizione al dominio francese mentre l'ennesimo scontro per il Regno di Napoli tra Aragonesi e Angioini cessava nel 1462, con la vittoria di Ferdinando d'Aragona a Sarno. Nel 1464, avuti dal francese Luigi XI i feudi di Genova e Savona, dette in moglie al Re di Francia la figlia Ippolita e pose mano ai lavori del Naviglio della Martesana; fece restaurare il Palazzo dell'Arrengo; dispose la ricostruzione dell'edificio di Porta Giovia, cruciale per la difesa della cinta muraria.

La morte lo colse l'8 marzo del 1466: la sua complessa ma solida eredità restò ai figli Galeazzo Maria, Filippo Maria; Sforza Maria; Ludovico; Ottaviano; Ascanio; Ippolita; Elisabetta.

Galeazzo Maria

Avuta notizia della sua nascita, il Papa che aveva in odio suo padre dichiarò lapidario: ... è nato un altro Lucifero...: di fatto scaltro, crudele, dissoluto, ambizioso, corrotto, vanitoso e avido; figlio di Francesco e di Biancamaria Visconti; nato a Fermo il 24 gennaio del 1444 e spentosi il 26 dicembre del 1476; fidanzato alla figlia del Marchese di Gonzaga e sposato poi a Bona di Savoia cognata di Luigi XI di Francia, ebbe imposto il nome dal nonno materno Filippo Maria che onorò il proprio genitore ed il suo voto a Maria immettendo la continuità della sua casata nella giovane dinastia sforzesca.

Quando ebbe notizia del decesso del padre, era in Francia per combattere i Grandi Feudatari a favore del cognato che, proclamatosi paladino del Piemonte, tentava di incunearsi negli affari degli Stati italiani del Nord mirando ad estendere la propria influenza sulla Lombardia. Tornò a Milano il 20 marzo del 1466 e, dopo una breve fase di cogoverno, relegò la madre a Cremona. Lungo il percorso, a Melegnano il 23 ottobre successivo ella morì avvelenata: il decesso fu ascritto al figlio, preoccupato dal rischio che ella cedesse quella città ai Veneziani.

Nel periodo della nascita del primogenito Giangaleazzo, egli introdusse in Milano il Testone: una moneta d'argento del peso di circa dieci grammi con l'effigie del suo profilo. In quel periodo, favorì l'ascesa del Consigliere Francesco Simonetta detto Cicco, cui accordò enormi privilegi indignando l'intera Corte ed i Milanesi, oppressi da onerose imposte; da processi deviati; da indicibili torture ed esecuzioni; da ingiustizie inaccettabili. Egli, infatti, dilapidò le fortune dello Stato arricchendo l'amante Lucia Marliani; spese nel 1472 una fortuna per festeggiare il fidanzamento del figlio ancora bambino con la Duchessa Isabella di Calabria; nel 1473 dette sontuose feste in onore del Cardinale Pietro Riario; nel marzo del 1474 accolse con inaudita magnificenza il Re d'Ungheria Mattìa Corvino, cui donò anche diecimila zecchini; sperperò soldi in viaggi, il più discusso dei quali fu quello del 1471, costato oltre duecentomila fiorini per recarsi con la Duchessa a Firenze, Lucca e Genova ove ordinò la costruzione di bastioni che dividessero la città in due parti, ciascuna sorvegliata da una guarnigione armata.

L'iniziativa fu interpretata da tal Lazzaro Doria come palese violazione agli accordi tra la Repubblica e il Ducato: la folla insorse costringendo il Governatore Guido Visconti a chiudersi nel suo palazzo mentre Galeazzo inviava reparti armati e faceva arrestare il notabile Prospero Adorno recedendo poi da propositi ostili, nel timore della reazione del Duca Girolamo Gentile.

Troppo tardi: costui guidò la rivolta che nel giugno del 1476 il rappresentante del governo milanese sedò con rigore accordando settecento ducati al Gentile, trinceratosi con un esiguo manipolo di fedelissimi a Porta San Tommaso e disposto a negoziare la resa.

In quei giorni l'attenzione del Duca era rivolta a Ferrara ed al Piemonte, teatro di eventi nei quali era coinvolto: contro Ercole I d'Este aveva segretamente aizzato Niccolò, figlio di Lionello, che da Mantova aspettava l'occasione propizia per insignorirsi di Ferrara. L'occasione maturò il 1° settembre quando, profittando dell'assenza dello zio, egli entrò nella città alla testa di un mezzo migliaio d'Armati non prevedendo che il Popolo si stringesse attorno a Sigismondo, fratello del Duca, e lo costringesse alla fuga: catturato dai contadini mentre cercava di tornare a Mantova, fu ricondotto a Ferrara e decapitato. In Piemonte, invece, il 30 marzo del 1472 era mancato Amedeo IX di Savoia, lasciando erede il primogenito Filiberto che, contando soli otto anni, era stato posto sotto reggenza della madre Jolanda, sorella di Luigi XI di Francia. Contro costei aveva marciato il Duca di Borgogna Carlo il Temerario che prima l'aveva avuta come alleata in una infausta guerra contro gli Elvetici e poi, sconfitto da costoro a Morat nel giugno del 1476, l'aveva arrestata. Il Sovrano, presso il quale era stato rifugiato il piccolo erede, inviò in aiuto della germana rinforzi di Galeazzo Maria: sconfitto a san Germano, Carlo arretrò verso le Alpi per riprendere le operazioni militari in primavera. Ma era già in atto una ramificata congiura stimolata proprio dal Re francese contro lo Sforza: dopo dieci anni circa di discutibile governo, il 26 dicembre di quell'anno nella chiesa milanese di santo Stefano ove era raccolto in preghiera, egli cadde sotto i colpi di pugnale di Giovanni Andrea Lampugnani, Gerolamo Olgiati e Carlo Visconti. Aveva macchiato l'onore familiare del primo e defraudato di gran parte del patrimonio gli altri due. Tuttavia, mentre il suo corpo esanime finiva fra le braccia dei Legati di Mantova e Ferrara, Lampugnani fu ucciso; Olgiati riuscì a fuggire ma fu catturato e condannato a morte; Carlo Visconti fu squartato.

Galeazzo Maria lasciò numerosa prole: dalla moglie Bona, i figli Giangaleazzo Maria; Ermes Maria; Biancamaria, sposa dell'Imperatore Massimiliano d'Asburgo; Annamaria, coniugata da Alfonso I d'Este. Dall'amante Lucrezia Landriani, i figli Carlo, Chiara e Caterina.

La minorità di Giangaleazzo Maria

Al soglio ducale ascese per successione diretta il settenne Giangaleazzo Maria

Il potente Ministro Francesco Simonetta affidò la sua reggenza alla Duchessa madre Bona, assistita da un Consiglio di Stato, con sede nel castello e da un Consiglio di Giustizia, ubicato nel palazzo ducale. Per rassicurare la popolazione, abolì subito le gabelle più onerose e fece distribuire grano irritando i fratelli del defunto: Sforza Maria, Ottaviano, Filippo, Ascanio ed in particolare Ludovico il Moro.

Per ripianare le tensioni, nel febbraio del 1477 Ludovico Gonzaga si recò a Milano e riconciliò la Duchessa con i cognati. In Milano tornò la pace, ma nel marzo successivo esplosero torbidi a Genova ove i Fieschi e i Campofregoso animarono una rivolta che mise in fuga il Governatore ducale Giovanni Francesco Pallavicini. Per ristabilire l'ordine, l'energico Simonetta ordinò la scarcerazione di Prospero Adorno, fatto arrestare nel 1471 da Galeazzo Maria, e gli assegnò il comando delle truppe destinate a soccorrere il Pallavicini. In cambio pretese la restaurazione dell'autorità del Duca nei limiti assegnati dal Trattato di dedizione a Francesco Sforza.

Adorno accettò e, alla testa di dodicimila uomini, il 30 aprile del 1477 occupò Genova; promise il condono ai ribelli che avessero deposto le armi; assunse la carica di Governatore; assediò la sede dei Fieschi fino alla resa e tornò a Milano.

Il Ducato era intanto permeato da un clima di intrighi e veleni in danno del Ministro che, a fronte delle contestazioni mosse da Ludovico e Sforza Maria al governo della Reggente, dispose la cattura dei loro favoreggiatori Roberto Sanseverino, Donato del Conte ed Ibletto Fieschi.

Il provvedimento degenerò in una sommossa: impadronitisi di Porta Tosa, i ribelli traversarono la città al grido di Morte ai forestieri, alludendo all'estrazione calabrese del Simonetta. Ma furono isolati: Ludovico fu confinato a Pisa; Sforza Maria morì forse avvelenato a Varese ligure; Ottaviano annegò durante il guado dell'Adda; Ascanio fu relegato a Perugia; il solo Filippo restò a Milano, per estraneità ai fatti; Donato del Conte morì per le ferite riportate durante l'evasione dalle prigioni di Monza; Ibletto Fieschi fu arrestato al confine astigiano; Roberto Sanseverino riuscì a porsi sotto la protezione della Corona francese.

Fu di nuovo pace: il 24 aprile del 1478 nel duomo, il novenne Giangaleazzo fu formalmente investito del titolo ducale.

Due giorni dopo esplose a Firenze la Congiura de' Pazzi provocando la costituzione di due leghe: l'una tra Ferdinando di Napoli e il Papa; l'altra tra Milano e Firenze.

Sollecitato da Sforza Maria, il Sovrano partenopeo stimolò la ribellione di Prospero Adorno che Bona fece destituire; ma il 25 giugno del 1478, la reazione esplose violenta ed il ribelle si proclamò Doge contro i Doria e gli Spinola, estranei al colpo di Stato. In suo sostegno da Asti accorsero truppe di Roberto di Sanseverino, mentre sette galee napoletane con Ludovico di Campofregoso puntavano su Genova.

Comandati da Sforzino, figlio naturale del Duca Francesco, gli Sforzeschi affrontarono il Sanseverino il 7 agosto e, subìte pesanti perdite, dopo sette ore di combattimento si ritirarono. La rotta persuase la Duchessa della impossibilità a recuperare Genova con le armi; pertanto, ella ricorse alla strategia della contrapposizione fra fazioni facendo concessioni a Battista di Campofregoso figlio di Pietro. Costui prevalse sull'Adorno e in novembre lo cacciò dalla città col Sanseverino. Ma l'esautorazione di Prospero non giovò ai Milanesi, poiché il Campofregoso si fece eleggere Doge. Parallelamente, Sisto IV aizzò contro il Ducato gli Elvetici del Cantone di Uri che, nel novembre del 1478, si inoltrarono fino a Bellinzona per poi ritirarsi senza averla potuta espugnare. Contro di essi, allora, marciò l'esercito di Milano guidato da Marsilio Torelli, duramente battuto.

La guerra era conclusa. Grazie all'abilità di Cicco Simonetta fu pace anche con gli Elvetici. Ma un'altra scintilla era pronta a riattizzare i fuochi delle discordie: Sanseverino ed i fratelli Sforza si accingevano da Borgotaro ad invadere il Milano non per abbattere Bona, ma per liquidare il suo potente Ministro.

Il 27 luglio del 1479 sopravvenne la morte di Sforza Maria: circa un mese dopo, Ludovico si impadronì di Tortona in nome della cognata e del nipote e, fra armi ed intrighi, si avvalse del ferrarese Antonio Tassino, favorito di Bona e nemico del Simonetta, per sumulare una fittizia riconciliazione che quest'ultimo così commentò alla Duchessa: ...Io perderò la testa, ma voi perderete lo Stato.

Non sbagliava!

Il 7 settembre del 1480, Ludovico entrò in Milano e prestò giuramento di fedeltà al giovane Duca ma quattro giorni dopo, fatto arrestare il Ministro col figlio Antonio, il fratello Giovanni ed altri familiari, assunse le redini del governo; separò il nipote dalla madre trasferendola ad Abbiate e, quando si ritenne sicuro, si sbarazzò di tutti i potenziali nemici.

Il 7 ottobre, confiscatigli i beni, esiliò Antonio Tassino e il padre Gabriele; chiese a Simonetta, rinchiuso nelle prigioni pavesi, quarantamila fiorini in cambio della scarcerazione e, a fronte del fermo rifiuto, lo fece decapitare il 30 successivo.

La moglie del Ministro: una Visconti, impazzì.

La corsa al Ducato non presentava più ostacoli: divenuto a tutti gli effetti Governatore di Milano, nel 1489 Ludovico fissò per Giangaleazzo Maria le nozze con Isabella d'Aragona, nipote del Re di Napoli Ferdinando I e figlia di Alfonso di Calabria. Da quelle nozze sarebbero nati Ippolita, Francesco e Bona.

Ludovico il Moro

Quartogenito di Francesco Sforza e Biancamaria Visconti; Duca di Bari dal 1479; Conte di Mortara e Pavia; Duca di Milano dal 1494 al 1500; nato a Vigevano il 27 luglio del 1452 e morto a Loches il 27 maggio del 1508, Ludovico si mosse accortamente fra alleanze e tradimenti e, avvantaggiandosi delle rivalità fra i vari Stati italiani, rese Milano egèmone sullo scacchiere politico nazionale.

Temendo la potenza della confinante Venezia, aprì relazioni con Lorenzo il Magnifico; con Ferdinando I di Napoli e con Papa Borgia e sostenne i diritti della nipote Caterina Riario Sforza, Signora di Imola e Forlì.

Nel 1491 sposò Beatrice, figlia di Ercole I d'Este: ne ebbe i figli Massimiliano e Francesco durante quell'aurea fase ducale dominata dalla presenza a Corte di Leonardo, Bramante e vari Artisti e Letterati; dalla esecuzione di molte opere di ingegneria civile e militare e dal rilancio dell'economia.

In definitiva, Giangaleazzo era Duca solo de jure: quando la moglie ne pretese l'impegno anche de facto, il Moro si alleò con l'Imperatore Massimiliano I: costui ne sposò la nipote Bianca Maria col chiaro proposito di disporre di appoggi in Italia e, previo esborso di un'ingente somma, gli riconobbe la legittimità del titolo legittimandone l'usurpazione.

Nel 1492, intanto, per impadronirsi definitivamente della Signoria; per contenere le spinte espansionistiche di Venezia e per arginare l'ostilità degli Aragonesi partenopei imparentati col nipote, Ludovico sodalizzò anche col tredicenne Sovrano di Francia Carlo VIII e, per lui, con la sorella tutrice Anna di Beaujeu.

Statista sensibile ed attento, fino a percepire che sotto l'ègida milanese l'Italia potesse trovare una identità unitaria, alla fine rivolgendosi ai cugini d'oltr'Alpe scongiurò un rischio ma spianò la via all'imperialismo di un avido straniero!

Le conseguenze dell'iniziativa si rivelarono drammatiche.

Carlo VIII varcò le Alpi l'11 settembre del 1494: fu il primo degli invasori dell'Età Moderna.

Se per Ludovico fu la fine, per l'Italia fu l'inizio di quattro secoli di dominazioni.

Il 21 ottobre del 1494 Giangaleazzo morì: due giorni più tardi, solenni squilli di tromba annunciarono la proclamazione dello zio a Duca di Milano.

Nel precedente gennaio, intanto, si era spento anche Ferdinando di I ed al soglio napoletano era asceso proprio Alfonso che, quale suocero del defunto, aveva rivendicato diritti sul Ducato irritando la Corona francese, a sua volta imparentata con Valentina Visconti e, pertanto, pretendente allo stesso titolo.

Senza indugi, proclamatosi Re di Napoli e Duca di Milano, Carlo VIII entrò in Piemonte col favore dei Savoia del Monferrato e simulò di accettare la Signoria del Moro tendendogli comunque insidie lungo il viaggio verso la Toscana: destabilizzata la posizione di Piero de' Medici, rimpiazzato dal regime repubblicano influenzato da Girolamo Savonarola, proseguì per Roma occupandola il 31 dicembre del 1494; indusse il Papa alla fuga in Castel sant'Angelo; prese Napoli all'inizio dell'anno successivo.

Contro di lui si costituì una coalizione composta da Alessandro VI, dagli Asburgo, dalla Spagna, da Venezia e da Milano nel tentativo di spezzarne l'egemonia; ma egli, temendo di restare intrappolato nel Sud peninsulare, si spostò verso Nord e, incontrato Ludovico a Vercelli, lo persuase a sostenerlo.

Il Duca abbandonò la Lega e sottoscrisse l'intesa con la Francia.

Nel 1498 Carlo si spense: gli successe il cugino Luigi d'Orléans che, reclamata l'eredità di Valentina Visconti, riprese la politica interventista e le ostilità contro Milano sottoscrivendo nel 1499 due ambigue intese: il Trattato di Marcoussins con Ferdinando il Cattolico per dividersi il Regno dei rispettivi parenti napoletani e il Trattato di Blois con Venezia per spartirsi il Ducato lombardo.

Tali circostanze furono aggravate dal passaggio del Papa nel partito dei Francesi e degli Aragona di Castiglia.

Nel mese di agosto, l'Armata di Luigi XII entrò in Italia e, da Genova, puntò su Milano dopo aver messo a sacco Pavia.

A fronte della tutela esercitata dai Veneziani sui Pisani e consapevole di non potersi insignorire della città toscana, Ludovico rovesciò l'alleanza con Venezia ed appoggiò la riconquista fiorentina di Pisa contando sull'appoggio antifrancese.

Era tardi e la mossa fatalmente sbagliata: il rivale si alleò con la Serenissima, desiderosa di vendicarsi del voltafaccia mentre i Milanesi insorgevano contro l'oppressione fiscale.

Parallelamente all'occupazione veneziana di Lodi e Cremona, il Moro riparò in Germania presso Massimiliano d'Asburgo.

L'anno dopo rientrò nel Ducato con milizie elvetiche e ricacciò i nemici oltre il Ticino ma fu tradito; catturato il 10 aprile del 1500 a Novara; trasferito in Francia ove si spense dopo otto anni di prigionìa.

Luigi XII e Ferdinando il Cattolico, intanto, col Trattato di Granada del 2 novembre del 1500 si divisero l'Italia dando avvìo a cinque lustri di guerre concluse il 24 febbraio del 1525 quando, dopo la Battaglia di Pavia, si avvicendarono a fasi alterne i Borboni spagnoli e gli Asburgo finché Carlo V, incoronato a Bologna il 24 febbraio 1530, assunse il controllo dell'intera penisola.

Da allora, gli eredi degli Sforza mantennero solo il titolo, poiché di fatto il Ducato fu retto da stranieri: Milano era stata ceduta ai Francesi dopo la Battaglia di Marignano del 13 settembre del 1515 e, d'altra parte, nel giro di vent'anni la linea maschile dei Duchi della potente dinastia subentrata ai Visconti si sarebbe estinta.

...Voi venite da una famiglia che governa Ferrara da duecento anni. Il padre di mio padre era nato in un minuscolo borgo romagnolo e non imparò mai neppure a fare la propria firma. Era un apprendista calzolaio che divenne il più grande condottiero del suo tempo....

Così Ludovico il Moro aveva orgogliosamente parlato a sua moglie Beatrice del proprio nonno Giacomo Attendolo Sforza e degli avi che avevano spinto il loro potere fino a Bari. Ma egli stesso aveva abbassato le luci sulla dinastia, portando alla rovina l'Italia e il suo Ducato che pure aveva saputo sopravvivere alle pressioni delle Potenze emergenti.

Impotente custode della magnificenza di una Corte impostasi cruciale nodo di fermenti intellettuali fra i più illuminati d'Europa, pur fra le luci e le ombre che avevano accompagnato il percorso della famiglia, Milano fu consegnata dai Francesi e dagli Spagnoli al declino politico, sociale, economico e culturale.

Bibliografia: