Le Grandi Battaglie

La Guerra degli Otto Santi

di Ornella Mariani
Urbano VI Papa
Urbano VI Papa

Premessa

Fu il conflitto esploso fra Firenze ed il Papato, negli anni compresi tra il 1375 ed il 1378.
Cominciò col tentativo di restaurazione di un forte Stato della Chiesa, nella prospettiva del rientro del Primate da Avignone: la Repubblica toscana se ne allarmò, fino a farsi capofila di una Lega fra città della regione e varie Signorie italiane.
Erano in gioco l’indipendenza e la libertà.
Così, Bernabò Visconti e Giovanna I di Napoli si raccolsero sotto lo stendardo rosso recante la scritta Libertas ed appoggiarono un programma che garantisse agli insorti un governo democratico.

Al tavolo della pace, dopo tre anni di conflitti, i Fiorentini si presentarono con un notevole dissesto finanziario, ma la Curia Romana dovette assumersi tutte le responsabilità per la sentenza irrogata al Popolo toscano e per l’esecuzione di orrende stragi in Romagna.
La definizione di quella guerra condivisa dai Fraticelli, sempre più ostinati nemici della scandalosa opulenza della Corte avignonese, e confortata dalle roventi lettere del Cancelliere della Repubblica Coluccio Salutati1, che sollecitava i Romani alla ribellione, fu mutuata dall’ impegno degli Otto Magistrati ironicamente incoronati Santi e, in sprezzo della scomunica, dotati di dorata aureola: Andrea Salviati, Alessandro Bardi, Giovanni Dini, Giovanni Malagotti, Matteo Soldi, Guccio Gucci, Tommaso Strozzi e Giovanni Moni.

Gregorio XI fu travolto dalla sollevazione che contagiò l’ampio territorio da Modena alle porte di Roma: Romagna, Toscana, Marche, Umbria e Lazio si coalizzarono su un forte sentimento anticlericale, favorendo un clima di agitazione generale senza precedenti e minacciando la sopravvivenza stessa del Papato o comunque decretandone confino definitivo in Provenza.
Furono quelle circostanze e le pressioni esercitate dalla mistica Caterina Benincasa ad indurre il Papa al rientro a Roma, anche per l’incombente scisma che, durato otto lustri, vide seduti sulla cattedra di Pietro tre Vicari contemporaneamente.

I fatti

La miccia fu accesa nel 1374 dal rifiuto del francese Vescovo di Bologna Guillaume de Noellet a fornire grano ai Fiorentini. Costoro lessero nell’atto il proposito di indebolire e conquistare Firenze, stremata dalla carestia; dalle conseguenze della peste, che in otto mesi aveva causato ben settemila vittime; dal rigore dell’inverno alle porte e, soprattutto, dalla scarsità di pane. Il sospetto che il Prelato mirasse a prendere la città per fame fu avvalorato nel giugno del 1375, quando la temuta Compagnia di Ventura di Giovanni Acuto2 irruppe sul territorio toscano, scempiandolo.

La Signorìa non dette credito agli scritti col quale il Cardinale, che aveva concluso una tregua col Visconti, sostenne la propria estraneità alla vicenda; ritenne, anzi, che il Condottiero inglese fosse stato incaricato di devastare l’area sulla quale il Legato di Perugia Gherardo Dupuy intrigava con i Salimbeni contro Siena.
I Fiorentini versarono agli aggressori centotrentamila fiorini, ma per vendetta insorsero contro la Chiesa e insediarono gli Otto della guerra.
La Magistratura speciale affidò la difesa della città alle truppe del tedesco Corrado di Svevia, cui consegnò il gonfalone comunale con uno stendardo rosso arrecante al centro ed in bianco la parola Libertas, per indicare la ribellione anche delle terre dello Stato ecclesiale alla tirannide papale: Milano, Lucca, Siena, Pisa, Arezzo, Viterbo, Città di Castello, Perugia, Montefiascone, Foligno, Spoleto, Gubbio, Narni, Todi, Assisi, Chiusi, Orvieto, Orte, Toscanella, Radicofàni, Sarteano, Camerino, Fermo, Ascoli, mentre i Montefeltro ritornavano a Urbino e Sinibaldo degli Ordelaffi rientrava a Forlì.

Solo Galeotto Malatesta tenne la propria Signorìa fedele alla Chiesa.
La notte fra il 19 ed il 20 marzo del 1376 a Bologna Taddeo degli Azzoguidi e Roberto Salicetti costrinsero il Cardinale a consegnare le chiavi della città: il vessillo comunale fu issato al sommo della torre e si procedette alla nomina di un Consiglio degli Anziani che consentì il ritorno di tutti i Fuorusciti, tranne i Pepoli.
La rivolta emiliana fu seguìta dall’eccidio di Faenza, orrendamente insanguinata il 29 marzo da Giovanni Acuto nel tentativo di prevenirne la sollevazione.

Intanto Gregorio XI, che dal 3 febbraio precedente aveva invano invitato i ribelli a comparire davanti al suo Tribunale, interdisse Firenze; estese il provvedimento ai Mercanti toscani residenti in Avignone; ne espulse un migliaio e gli confiscò beni e merci.
Tutt’altro che intimiditi, i Fiorentini seguitarono nella campagna di ostilità.
Diffidando dell’Acuto che, ottenuta la Signorìa di Bagnacavallo e di Cotignola, dopo la strage faentina aveva venduto come sua la città al Marchese Alberto d'Este, il Papa assoldò la feroce Compagnia dei Brettoni comandata da Giovanni di Malestroit e dal Cardinale Roberto di Ginevra, destinato a governare Romagna e Marche.
Costoro giunsero in Italia nel maggio del 1376: il Porporato traversò Asti, Alessandria e Tortona e, avendo ottenuto libero passaggio da Galeazzo Visconti, marciò sul territorio bolognese al quale Bernabò inviava rinforzi con Lucio Lando, mentre i Fiorentini fortificavano i passi appenninici affidandone la sorveglianza a Ridolfo Varano di Camerino.

Non ritenendo di affidare le sorti della guerra ad uno scontro campale, lungi dal fronteggiare i Bretoni, già entrati in Emilia ove avevano seminato terrore, costui si asserragliò in Bologna; ma, nel perdurare dell’assedio, due Cavalieri di quella feroce Compagnia, muniti di salvacondotto, varcarono le mura e invitarono due Italiani a battersi.
La sfida fu raccolta dal fiorentino Betto Biffoli e dal senese Guido d’Asciano, che prevalsero.
In giugno, intanto, Caterina da Siena raggiunse Avignone e sollecitò il Papa alla pace ed al ritorno a Roma: pur desiderando riconciliarsi con Firenze, amica storica della Chiesa, Gregorio XI esigeva la deposizione degli Otto della Guerra e, non ottenendola, decise di continuare la guerra finchè, persuaso di porle fine con la sola presenza, si decise a scendere in Italia.

Il 13 settembre del 1376, pertanto, puntò su Marsiglia ove era atteso da ventidue galee comandate dal Gran Maestro dell'Ordine di San Giovanni di Gerusalemme: preso il mare il 2 ottobre, fece sosta a Genova e il 5 dicembre toccò Corneto ma, non potendo entrare in Roma per via terra a causa della ribellione di Viterbo e Civitavecchia, riprese la navigazione per Ostia donde, risalito il Tevere, il 17 gennaio del 1377 fece solenne ingresso nella città da Porta Capena.
Dopo settant’anni, i Capitolini vedevano riaperta la casa di Cristo.
I negoziati con Firenze furono riavviati, ma il conflitto continuò a causa della insurrezione anche di Bolsena e della strage di Cesena: sciolto l'assedio di Bologna, Roberto da Ginevra aveva deciso di svernarvi con i Brettoni che ne fecero terra di conquista, ponendola orrendamente a sacco.

Il 1° febbraio la Popolazione reagì, massacrando alcune centinaia di loro e costringendo i superstiti a rifugiarsi nella Murata, ove era già arretrato il Cardinale.
Egli simulò di disapprovare la condotta dei suoi uomini e, attraverso Galeotto Malatesta, convinse i Cesenati a deporre le armi per una riconciliazione generale; tuttavia, il 3 febbraio, raggiunto dalla Compagnia dell'Acuto, la scagliò sulla massa ormai disarmata, provocando un terribile bagno di sangue.
Nel marzo del 1377, tuttavia, il bisogno di pace prevalse: Bologna aprì trattative col Legato papale e concluse una tregua di due mesi.
I Fiorentini non recedettero e, nell’aprile, ingaggiarono l'Acuto alienandosi l'amicizia di Ridolfo di Varano che, vedendosi negata la Signorìa di Camerino e Fabriano ed assunto per la Chiesa il comando dei Brettoni, fu sconfitto da Lucio Lando.

Il Pontefice sollecitò ancora la pace, ma gli Otto della Guerra colpirono con onerose tasse il Clero locale e in ottobre, in sprezzo dell’interdetto, riaprirono le chiese obbligando i Sacerdoti, sotto minaccia di gravi sanzioni, ad officiare regolarmente. Bernabò Visconti convocò una conferenza a Sarzana, proponendosi mediatore degli interessi delle varie città alle cui Ambascerie si unirono rappresentanti del Re di Francia e del Papa, che aveva delegato il Cardinale d'Amiens e l'arciVescovo di Narbona.
L’assise si aprì il 12 marzo del 1378, ma fu chiusa il 27 per la morte di Gregorio XI.
I lavori furono ripresi sotto Urbano VI e il 28 luglio successivo si convenne la pace di Tivoli: Firenze s'impegnò a corrispondere una indennità di trecentocinquantamila fiorini, in cambio della revoca dell’interdetto accordata da un Primate sempre più minacciato dalla secessione dell’Episcopato francese.


  1. Lino Coluccio Salutati Lino Coluccio Salutati, nato a Stignano il 16 febbraio del 1331 e morto a Firenze il 4 maggio del 1406, fu figura di riferimento del Rinascimento di Firenze ove, dopo gli studi notarili, si trasferì nel 1374 diventandone Cancelliere. Egli si consegnò alla Storia per aver salvato la città, dopo dodici anni di guerra, dai propositi di conquista di Giangaleazzo Visconti con esortazioni raccolte nell’opera Invectiva. La vicenda si risolse nel 1402 con la morte del Duca, quando Firenze era, ormai, una Potenza europea.
    Animatore del Circolo dello Spirito Santo ed amico di Dante, Petrarca e Boccaccio, nel 1397 Coluccio ospitò Emanuele Crisolora, massimo esperto di greco antico, rilanciandone lo studio in Occidente; ma i suoi interessi si volsero anche alla Storia: dopo accurate indagini, egli retrodatò la fondazione di Firenze dall'epoca imperiale romana a quella repubblicana e, per le tendenze apertamente laiche, fu censurato dalla Chiesa.
    Sostituita la grafia gotica con quella umanistica fondata sull'evoluzione della minuscola carolina, Salutati fu autore di Invectiva in Antonium Luschum; De saeculo et religione; De fato, fortuna et casu; De nobilitate legum et medicinae; De tyranno e De laboribus Herculis.
  2. Giovanni Acuto In realtà si chiamava John Hawkwood: nato a Sible Hedingham verso il 1320 e morto a Firenze nel 1394, ebbe il nome italianizzato dal Machiavelli. Secondo la leggenda, era secondogenito d'un conciatore di pelli della Contea dell’Essex ed intraprese la carriera militare combattendo per Edoardo III nella Guerra dei Cent’Anni. Dopo la Pace di Brétigny fondò la mercenaria Compagnia Bianca del Falco e nel 1362, ingaggiato dal Marchese del Monferrato, venne in Italia sorprendendo Amedeo VI di Savoia ed obbligandolo al pagamento di un cospicuo riscatto per la libertà sua e delle sue terre. Successivamente scese in Toscana e servì Pisa nella Battaglia di Cascina del 1364.
    Passò poi al soldo di Firenze e poi di Bernabò Visconti, del quale sposò una figlia illegittima nel 1377. Sciolta l'alleanza anti-papale, con indignazione del suocero, firmò un trattato di amicizia con Firenze e poi sostenne Gregorio XI nella Guerra degli Otto Santi commettendo inaudite atrocità in danno di Cesena nel 1377. Passato poi dalla parte degli Angioini partenopei contro i Durazzeschi e contro Giangaleazzo Visconti, ottenne nel 1381 il titolo di Baronetto da Riccardo II che lo designò anche Ambasciatore presso il Papa. Nel 1387 combatté la Battaglia di Castagnaro, considerata una delle più grandi dell'epoca, e sconfisse Giovanni Ordelaffi e Ostasio da Polenta.
    Postosi, infine, alle dipendenze di Firenze, che gli assegnò il Castello aretino di Montecchio Vesponi, morì nel 1394 e fu sepolto nel Duomo con grandi onori. Le sue spoglie furono poi traslate nella città natale, su ordine del Re inglese. In sua memoria la città di Firenze commissionò il celebre Ritratto Equestre a Paolo Uccello, recante l'iscrizione: Joannes Acutus Eques Britannicus Dux Aetatis Suae Cautissimus Et Rei Militaris Peritissimus Habitus Est.

Bibliografia: